Albrecht Dürer, Navis Stultorum (in S. Brant, Narrenschiff - 1497)

giovedì 11 dicembre 2008

Gli esperti dell’efficienza

Come riporta la stampa locale, la Corte dei conti esprime un giudizio assai severo sulle capacità tecniche dell'Amministrazione Provinciale di Como, coinvolta – come varie altre amministrazioni locali – in manovre finanziarie da veri intenditori. Si tratta, com’è noto, di quei prodotti derivati che tanto sapientemente alcuni spregiudicati operatori hanno saputo affibbiare negli scorsi anni agli enti pubblici, presentandoli come la moltiplicazione dei pani e dei pesci (e soprattutto, la possibilità di differire i debiti scaricandoli sulle amministrazioni future), non senza elargirsi lauti compensi e creando “paracadute” a tutto vantaggio degli istituti emittenti, quasi sempre in forma poco trasparente e difficilmente calcolabile dai profani. Nel caso in oggetto, ad esempio, rescindere i contratti costerebbe alla Provincia 5 milioni di euro. Ci permettiamo una sola, sommessa domanda: ma queste amministrazioni che in campagna elettorale chiedevano ed hanno ottenuto la riconferma basandosi sulla loro asserita “efficienza”, sulla capacità di capire il mondo “concreto” degli affari e degli interessi – ben diversamente da quegli sprovveduti idealisti del centrosinistra – proprio non potevano dare miglior prova di sé? Perché a prendere fregature simili (per giunta, con i soldi dei contribuenti) sono capaci proprio tutti… O forse no; come ricordava recentemente il Vescovo, altri potrebbero intendere diversamente il fare politica, in modo da guardare all’interesse generale, al bene comune, esercitando quindi maggiore prudenza, senza cedere alla cura delle convenienze particolari e al fascino delle “scorciatoie”.
Chissà però se questi altri esistono; e vi è soprattutto da chiedersi se, in un paese come il nostro, l’elettore medio darebbe loro retta, o se non preferisca anch’egli le sirene del “tutto facile” (ghe pensi mi!).

mercoledì 3 dicembre 2008

Pulci

«D'âge en âge on ne fait que changer de folie» (Pierre Claude Nivelle de La Chaussée). Niente di strano, perciò, che ogni tanto si cambi idea, stile, modo di vestire e, specie in Italia, partito politico. Ma è abbastanza impressionante la proliferazione di micropartiti, incentrati attorno a figure di secondo piano del centrodestra, che si è avviata – guarda caso – in concomitanza con la fase preliminare della costituzione del Partito delle Libertà.
Santanché, Pionati e, da ultimo il buon Magdi “Cristiano” Allam sentono improvvisa l’urgenza di fondare un proprio movimento politico, affiancandosi ai già numerosi cespugli esistenti, tanto è ricca la loro esperienza, profondo il carisma, diversificata la proposta politica: basterebbe in proposito considerare i simboletti con lo sfondo azzurro e le bandierine che richiamano un altro, e più allettante, contenitore.
Non si rassegnano, infatti, ad entrare nel corpaccione del nuovo soggetto politico per la porta stretta della partecipazione ai partiti (relativamente) tradizionali della destra recente, come militanti, sostenitori, figure più o meno significative, ancorché doverosamente ossequienti al Capo.
No, no. Loro saranno a loro volta “capi partito”, chiederanno di sedere “con pari dignità” al tavolo delle trattative, forti dei risultati – sicuramente travolgenti – delle prossime tornate elettorali. Anziché mendicare uno strapuntino, ambiranno a chiedere a testa alta posti in direzione e garanzie su un adeguato numero di futuri candidati “sicuri”, con fermezza reclameranno quote prefissate in questa o quell’assemblea. Almeno ci proveranno, utilizzando fino all’ultima le loro cartucce mediatiche e cercando perciò in questi mesi la massima visibilità possibile.
Bravi, così si fa, anche se di certo non rimarrete soli; vista la quantità di VIP che il nostro disgraziato paese produce, c’è da temere che la concorrenza sarà agguerrita.
Chi sarà il prossimo?

giovedì 27 novembre 2008

Res nullius (animali)

Notizie contraddittorie, quelle che giungono dal fronte dei diritti degli animali, ma che lasciano intravvedere una certa evoluzione, in questo paese che stagionalmente attende con ansia il passo dei migratori protetti in tutta Europa per poterli comodamente impallinare, spesso contro la legge ma anche con il consenso di deroghe ed estensioni volute dalla potente lobby delle armi (sono posti di lavoro, pota!).
Da un lato la cassazione ritiene fondato multare un veterinario che viola i limiti di velocità in quanto tenta di portare un cane ferito con urgenza in sala operatoria; nulla di trascendentale, purtuttavia è curioso che il principio valga per i cristiani (e sia anzi una sorta di imperativo morale: fare tutto il possibile per salvare una vita in quelle condizioni), ma non venga riconosciuto se ad essere oggetto di simili cure professionali è un animale. Evidentemente la sofferenza si può pesare su bilance sensibilissime, che consentono di fare queste distinzioni: quasi che riconoscere la liceità di un comportamento estremo, giustificato dall’emergenza per salvare un animale, sminuisca i diritti delle persone. Misteri della giurisprudenza.
D’altro canto, viene avanzata un proposta di legge bipartisan per impedire l’esibizione di animali nei circhi (alzi la mano chi ha mai creduto alle rassicurazioni dei domatori che l’addestramento avviene solo con la dolcezza e senza alcuna violenza…) e si assiste alla condanna di chi per trascuratezza lasciò morire di fame e di sete il proprio gatto. Se il parlamento ritenesse di non insabbiare la prima - com'è facile temere - potremmo constatare almeno un piccolo, ulteriore passo di civiltà in un mondo che lentamente sta prendendo coscienza del legame vitale che intercorre tra gli esseri umani, l’ambiente e gli altri esseri viventi.
… Forse però troppo lentamente, per sperare di salvarsi.

venerdì 7 novembre 2008

Ahi, serva Italia (che figure all'estero)

Mi scuso per la decontestualizzazione; volutamente ignoro il corollario di insulti e le gaffes che li hanno originati; dubito, infine, che io e lui ci si riferisca alle stesse persone.
Ma quando ora Berlusconi afferma: "Dio ci salvi dagli imbecilli", trovo che abbia perfettamente ragione.

domenica 2 novembre 2008

L'ultima parola

Lettere al giornale: eccezionalmente il Corriere di Como consente una replica ad una lettrice sui toni usati per deplorare, più che descrivere, le manifestazioni studentesche in città. Ma, essendo persone civili, forniscono poi il diritto di replica al giornalista autore dei commenti più tempestivi, il quale naturalmente prende il doppio dello spazio della lettera.
Deve infatti far capire alla lettrice che lo pregava di prestare più attenzione ai contesti ed ai linguaggi (non confondendo ad esempio il '68 con il '77), che ella è vittima di una "commovente" e insieme preoccupante ingenuità sia che abbia vissuto il '68, sia che gliel'abbiano solo raccontato. Inoltre si discolpa da una presunta accusa di "disonestà intellettuale" con una frase pienamente sottoscrivibile, anche se nel contesto di una excusatio non petita: "credo che l'irrazionalità di un pensiero consegnato a un'ideologia non debba prebalere sulla razionalità basata sull'osservabile e verificabile".
Sante parole. Si sa, però, che il diavolo si nasconde nei dettagli. Come mai, nel commento che ha dato l'avvio al dibattito, si evocavano scritte inneggianti ad "okkupazioni" con la kappa, con gli evidenti richiami storici di taglio pesantemente negativo, ma l'unica scuola in quel momento occupata inalberava uno striscione con la grafia corrente in italiano, oltretutto pubblicata dal quotidiano locale, e ripresa con involontaria ironia anche nella odierna pagina delle lettere? Non è che la campagna di stampa a senso unico che abbiamo avuto modo di apprezzare (studenti giudicati pilotati in quanto incapaci di una riflessione autonoma, proteste interpretate come forme di violenza e prevaricazione sugli altri, lamentazioni sul tempo perso e sull'incomprensibile incapacità di apprezzare una riforma imperniata sui tagli al futuro) è stata concepita "a prescindere"? Quali fatti osservabili e verificabili porterebbero a dire che le manifestazioni comasche sono uscite dai limiti dell'espressione democratica? Che tipo di riflessione critica, infine, si è sentito esprimere sul fatto che le nozze non si possono fare coi fichi secchi, ossia che non appare molto credibile un potenziamento dell'offerta formativa basato su riduzioni di spesa, di personale, di orari? Almeno un dubbio, una domandina che disturbasse il conducente o chiarisse come si può operare il miracolo?
Eh no, si correrebbe il rischio di passare per sessantottini...

mercoledì 29 ottobre 2008

Il complotto del mentitori

All’origine dei facinorosi, i mentitori: Berlusconi ci spiega così il fatto altrimenti incomprensibile che una “riforma” scolastica a base di tagli alla spesa come quella che lui si è fatto oggi approvare non sembri incontrare il favore della popolazione scolastica. Quale maleficio impedisce al popolo di apprezzare la verità, ossia che tutto quanto egli propone è vero, giusto, sacrosanto, e andrebbe approvato senza neppure discutere? Solo la menzogna sparsa a piene mani da “cattivi maestri”, i suoi oppositori politici in primis, sostenuti dal complotto perennemente ordito ai suoi danni dai mezzi di informazione. Il quale è in sé un altro dogma rivelato dalla sua bocca incapace di pronunciare la benché minima bugia, e quindi lo accogliamo con un reverente atto di… Fede.
Chi ha memoria rivede immutato il copione del Berlusconi 2002, quando appunto egli si decideva a svelare agli Italiani che l’opposizione, ieri come oggi: 1) non sa assolutamente fare il proprio mestiere; 2) manca completamente di quel fair play che invece vediamo con assiduità e profitto applicare ogni giorno in ambiente calcistico; 3) soprattutto, non sapendo far valere ragioni che non ha (è un noto postulato euclideo), essa deve ricorrere sistematicamente alla menzogna. Criticando lui e la sua azione di governo, naturalmente.
Già allora mi veniva in mente una celebre storiella, quella del filosofo cretese Epimenide che andava in giro affermando: «Tutti i Cretesi mentono». Enunciazione singolare, come subito si vede, perché il mentitore che dice di raccontare bugie risulterebbe, allo stesso tempo, mentire e dire la verità, in maniera del tutto contraddittoria. Le complesse implicazioni del paradosso hanno a lungo occupato la mente dei logici dei secoli passati, da Aristotele a Russell e Tarski.
Anche se sembra fare il “piangina”, l’attuale premier lamentandosi non brandisce una spuntata arma polemica, ma espone un (per lui) acutissimo ragionamento. Il suo assunto, in termini logici, suona più o meno così: «Io - che per definizione dico sempre la verità - affermo che chi mi critica o mi si oppone, per questo stesso fatto, mente». È ovvio che questa frase non sarebbe degna della minima considerazione se a pronunciarla fossero un mentitore incallito o un bimbo capriccioso. Ma un gran numero di italiani la prende per vera, e dunque dovrà pure valere la premessa: chi la pronuncia è un uomo che dice sempre la verità. Basta guardarlo (adoranti) in volto per capire che è così. In prima fila, molti politici del centro-destra e una moltitidine di giornalisti che il padrone, quando si lagna dell’informazione, sembra bizzarramente trascurare, negandone l’opera costante e certosina, quasi che Libero, Il Giornale, La Padania – per limitarci ai più acuti, sereni ed obiettivi – neppure esistessero. L’ansia di illuminare le folle, ammettiamolo, rende talvolta il capo un po’ ingrato.
Se questo non bastasse, sappiamo che da qualche anno in Italia si è felicemente affermato il sacrosanto principio dell’autocertificazione: in proposito è conclusiva la dichiarazione del soggetto, e tanto basta. Già da tempo, esponendosi in prima persona, il Cavaliere ebbe ad attestare l’inviolabilità di questo metodo. Chi infatti ha potuto rimanere insensibile davanti alla pietra miliare dell’onestà politica, il famoso giuramento compiuto “sulla testa dei suoi figli”? I suddetti risultano ancora felicemente in possesso della parte anatomica tirata in ballo, ergo

sabato 25 ottobre 2008

Facinorosi

Assistiamo dunque ad un'autentica invasione di facinorosi: parola di presidente del consiglio, prontamente seguito da emulatori in sedicesimo, grati della consolante chiave di lettura. Come quel genitore del liceo scientifico di Como, che tuona contro gli “insegnanti che hanno permesso che la scuola cadesse nelle mani di pochi facinorosi per motivazioni biecamente strumentali”, negando carattere di spontaneità alla - per il momento unica - occupazione realizzata nella nostra città.
D'altra parte, è noto che nella scuola le ragioni di preoccupazione e di protesta sono biecamente strumentali: non è chi non veda che il potenziamento dell'offerta formativa e il miglioramento della qualità passano attraverso generose... sforbiciate. Sono genitore anch'io: e probabilmente l'anno prossimo mio figlio si troverà con un orario ridotto di ben cinque (!) ore settimanali. Dovrà cullarsi nell'illusione di saperne comunque di più, unicamente confidando nella parola del duo Berlusconi-Gelmini? Come genitore e cittadino che paga le tasse, mi sembra piuttosto che così facendo si rompa un contratto educativo che lo Stato aveva stipulato nei confronti miei e di mio figlio.
Gli esempi si potrebbero moltiplicare, dato che questi neoliberisti d'accatto sono davvero convinti in cuor loro che “affamare l'animale” lo sproni ad essere più efficiente ed aggressivo: peccato non si rendano conto che il bestione-scuola è già da tempo agli stremi, privo da decenni di qualsiasi investimento serio, e reso costoso unicamente dalla mole inevitabile degli stipendi. Vogliono eliminare gli sprechi? Si accomodino, ma solo se sono in grado di farlo in maniera selettiva e mirata, non facendo di tutte l'erbe un fascio, con consapevolezza e perspicacia degne di uno scimpanzé giunto per caso nella stanza dei bottoni.
Il dialogo con l'utenza? È praticato in modo unidirezionale (dopo che ho deciso ti ascolto, e poi continuo sulla mia strada come prima), come una noiosa formalità; chi si ostina a voler discutere l'operato del capo è pertanto un “bieco facinoroso”.
Corollario di questa visione è anche che tutti coloro i quali descrivono le proteste sono bollati come suoi complici, com'è il caso della Rai, definita mistificatrice della realtà e addirittura additata agli industriali come ente da boicottare, in quanto “inserisce gli spot dentro programmi dove si diffonde solo panico e sfiducia”. Presumo che l'alternativa, quanto agli spot, sia quella di ingrassare Mediaset come avvenne nella precedente esperienza governativa. Per stampa e televisione, invece, i lacché sono già corsi ai ripari da giorni: l'informazione prona e genuflessa, infatti, non manca di dare conto sì delle agitazioni “facinorose” in tono di disgusto, ma le contornano immancabilmente di nutrite dichiarazioni di dissidenti, che incarnerebbero la cosiddetta “maggioranza silenziosa”. Provate a leggere qualcuno di questi fogli servili, e vi renderete conto che la proporzione “magica”, la regola aurea, varca di gran lunga la soglia del 50%: la maggioranza silenziosa, del resto, meriterà almeno i due terzi, come testimoniano i sondaggi fatti in casa.
Se c'è un segno di speranza in questo squallore, viene da dichiarazioni come quelle di una studentessa romana in televisione, fatta mentre respingeva l'attribuzione di casacche politiche di ogni colore: “quel signore credeva di averci rincretinito per anni con le sue televisioni e i programmi spazzatura. Invece stiamo mostrando di avere la testa per ragionare da soli”.
Il problema è che nel vocabolario dei nuovi signorotti i termini “pensatori liberi”, “spiriti critici” non esistono più; non sanno tradurli altrimenti che con “facinorosi”.

mercoledì 8 ottobre 2008

Il regime? Naturalmente non esiste

Ecco il mantra che conservatori, moderati, riformatori (e però anche diversi figuri poco raccomandabili) legittimamente recitano in ogni occasione in cui l'attendibilità di un'informazione schierata viene messa in discussione dai suoi stessi silenzi, parzialità, ammiccamenti, inginocchiamenti...
Ma è vero, in effetti la libertà di informazione non è conculcata nel nostro paese. Perché non ce n'è è bisogno. I responsabili degli spazi più importanti sul piano della diffusione, a cominciare dai telegiornali, non sentono infatti il bisogno di tutelare l'obiettività e l'equilibrio: perché dovrebbero, se il pubblico trangugia di tutto? È assai più conveniente inchinarsi al padrone di turno: o meglio, al Padrone, soprattutto quando è il suo turno. L'ossequio non si mostra solo nella sovrabbondanza dell'ostensione del capo e dei suoi esaltatori, ma soprattutto nell'attenuazione delle presenze degli oppositori: gente che sgradevolmente incrina l'immagine di consenso e di fiducia, e per mestiere parla male del Principe. Insomma, se non l'etica professionale, tutelano almeno l'estetica soft della nuova era dell'assenso, professando una sottomissione servile probabilmente neppure richiesta.
Tutto come sempre: Franza o Spagna, purché se magna - ma con una certa, sospetta preferenza per una delle due parti, come la storia dell'ultimo decennio insegna. Evviva dunque la deontologia professionale.
Se qualcuno dubitasse della fondatezza delle osservazioni sopra riportate, lo invito a leggere quanto Aldo Grasso nella sua rubrica “A fil di rete” (Corriere, 6 ottobre) riporta presentando i semplici dati. I freddi numeri, non le interpretazioni maliziose.
L’opposizione è data per dispersa nei principali tg nazionali. Un tempo si ragionava sulla faziosità, sui «panini», sull’equilibrio dell’informazione. Ora siamo oltre: perché a leggere la classifica delle presenze nei notiziari si scopre che l’opposizione sembra essersi dileguata. "In classifica stacca tutti Silvio Berlusconi, che a settembre totalizza oltre 110 minuti di «parola» nei sette tg nazionali. Il presidente del Consiglio guida normalmente questa classifica, era così anche con Prodi (sebbene Berlusconi ha maggiore capacità di «far notizia»). È quel che segue che è anomalo: il leader dell’opposizione di solito è a un’incollatura. E invece Veltroni si ferma a 44 minuti «di parola», meno della metà (di cui 33 solo nei tg Rai, con una scarsa attenzione nei tg Mediaset). Dopo di lui il vuoto. C’è il presidente Napolitano, il presidente Fini (le cariche istituzionali), Roberto Maroni, Maurizio Sacconi, Maurizio Gasparri, Giulio Tremonti. Poi Pier Ferdinando Casini e Antonio Di Pietro, ma del Pd nulla fino al quindicesimo posto di Pierluigi Bersani."
Grasso, che non è tenero col PD, sostiene che i numeri riflettono oggettivamente un vuoto percepito in questa fase del rapporto politica/tv. Ma senza ingenuità, gli stessi dati confermano che un partito debole in questo momento, ma non silente, un partito che forse non ha ancora trovato le ricette giuste, ma che non ha abbandonato l'iniziativa politica, che parla, commenta, interviene (almeno a leggere gli atti parlamentari e i documenti pubblicati sui siti) può essere opportunamente "silenziato" con la tattica del "minimo indispensabile". Non può trattarsi solo della mediocrità dei dirigenti: avete visto che facce, che eloquio, che profondità di ragionamento nella maggior parte dei soloni del centrodestra che si contrappongono loro. Piuttosto, è che i silenzi pilotati aiutano molto, definiscono un'immagine che non ci si stacca più di dosso.
Non è difficile comprendere questa strategia per un comasco, che è abituato da sempre ai comportamenti della stampa locale. Ma se fossi nei panni degli Italiani, assisterei con preoccupazione al dilagare in tutto il paese di un (auto)controllo opportunistico dell'informazione per le masse, di un conformismo deteriore, della più totale assenza di spirito critico. Mi devo correggere, quest'ultima non è afatto totale, perché è considerato meritorio esercitarla nei confronti di chi è più debole, e magari se lo merita anche. Ma l'esercizio condotto a senso unico rivela la statura professionale di chi lo compie.

giovedì 25 settembre 2008

Un ricordo del "Giovio" (da studente)

Con l'occasione del nuovo anno scolastico, ecco una sintetica retrospettiva della mia lontana esperienza di studente, che mi è stata chiesta per l'annuario dell'Istituto.
Premetto che non sono mai stato un fanatico del Giovio come istituzione: non ho mai sentito l'esigenza di periodici “pellegrinaggi alle radici” (pur essendo nato in questi edifici all'epoca in cui la struttura ospitava il reparto maternità dell'ospedale cittadino), ma in qualche modo la mia esistenza si è legata a più riprese al Liceo. La casa dove ora risiedo fu in passato abitata da un suo preside, al Giovio ho conosciuto la ragazza che mi avrebbe accompagnato, o subìto, per il resto della mia esistenza (ovviamente, la cosa migliore che mi sia capitata tra queste mura), al Giovio sono tornato come insegnante, anche se per scelta del provveditorato, non su mia insistenza. Coincidenze, che però sono significative anche in una città piccola come la nostra.
Il Giovio da me vissuto come studente è quello di circa trent'anni fa: una struttura molto simile (senza la palestra grande e gli ampliamenti recenti), ma con un numero di studenti inferiore alla metà dell'attuale. Anche allora però non ci si conosceva tutti; le occasioni di confronto erano rappresentate soprattutto da assemblee studentesche molto diverse dalle odierne giornate autogestite, con discussioni a volte ingenue su argomenti spesso più grandi di noi, cosa della quale ovviamente eravamo poco consapevoli. Neppure avevamo “progetti” da attuare o di cui usufruire a cura dell'istituzione, teatro a parte. La scuola era essenzialmente lezione, con qualche occasione di incontro politico in più (manifestazioni), e anche con qualche luminosa eccezione alla routine (ricordo una serie di concerti blues organizzati in orario serale...).
Il Liceo era comunque da tempo strutturato per l'istruzione di massa, senza quel carattere elitario che era appartenuto a stagioni precedenti, e viveva quindi tutti i problemi storici della scuola italiana. Si assisteva inoltre all'attenuarsi, e poi all'esaurirsi, di una stagione di politicizzazione intensa – di lì a poco sarebbero arrivati gli anni Ottanta e il cosiddetto “riflusso nel privato” – anche se abbiamo noi pure avvertito gli echi degli “anni di piombo”, culminati con il rapimento e l'omicidio di Aldo Moro.
Per me sono comunque stati anni di partecipazione intensa alle dinamiche della vita interna alla scuola, con l'esperienza dell'elezione (allora ancora politicizzata) al consiglio di istituto, e soprattutto con quella del gruppo giovanile che si riuniva a S. Filippo (dove attualmente sorge il parcheggio del Valduce). Un'esperienza di discussione, di formazione e di condivisione di ideali che ha molto arricchito quegli anni, integrando la dimensione educativa della scuola, insegnandomi a ricercare e a trovare gli spazi necessari per la riflessione personale. Opportunità come questa, oggi, mi sembrano assai rare se non del tutto assenti. Sul versante “studio”, le richieste di allora erano forse inferiori (in termini quantitativi, avendo meno discipline e ritmi non forsennati), tant'è vero che l'attività da me maggiormente praticata nel molto tempo libero di quegli anni è stata una lettura appassionata cui devo il mio caos mentale passato e presente, assieme a un poco di musica e di volontariato. Praticamente assenti la discoteca e il peregrinare da un locale all'altro: epoca felice, in cui questi rituali consumistici erano appena agli inizi e venivano praticati da personaggi che guardavamo con commiserazione. Minori disponibilità economiche e minore condiscendenza dei genitori ci aiutavano forse a ricercare anzitutto nella comunicazione e nel confronto, più che nella ricerca dei luoghi di svago, il senso del nostro stare assieme. Ci prendevamo sul serio, ma senza esagerare....

martedì 23 settembre 2008

Visita fiscale!


Mio malgrado, sono entrato a far parte del sospettabile mondo degli assenti dal lavoro, per la rottura improvvisa dei freni della bicicletta, lungo una ripida discesa, che mi ha costretto ad un volo scomposto e allo schianto contro una cancellata. Poteva andare peggio: niente di rotto, solo ammaccature e qualche ferita che reca un minimo pregiudizio al mio bel visino. Ringrazio l’efficienza del pronto soccorso del S. Anna che mi ha ricucito in modo sapiente. Fine del bollettino medico, ed inizio di quello burocratico.
Da animale domestico quale sono, non mi è pesato dover restare segregato in casa per una settimana, come prevedono gli inflessibili orari del ministro Brunetta, per restare a disposizione dei controlli. Avendo una famiglia, ho chi provvede alle necessità fondamentali di approvvigionamento, e sono comunque pronto ad affrontare ogni rinuncia. Ma so che non tutti hanno questa fortuna: trasgrediranno a loro rischio, evidentemente.
Non desta sconcerto, anzi è logico e doveroso, sottoporsi alla visita di controllo. Inconcepibile, invece, è che il medico ad essa preposto, quando si presenta, chieda di poter vedere il certificato del medico curante. Non senza fondamento, dal suo punto di vista, ammesso che il suo compito sia quello di "confermare" le diagnosi altrui e non di prendersi la responsabilità di formularne di proprie: peccato però che la legge imponga di trasmetterlo al datore di lavoro e all’INPS entro il quinto giorno di assenza (due, secondo altre versioni). Quindi nel mio caso, da bravo scolaretto, era già stato puntualmente inoltrato. Avendo io la documentazione del pronto soccorso, non ci sono poi stati problemi. Ma la procedura lascia molto a desiderare.
Qualcuno ha forse avvertito il lavoratore di fare una fotocopia? Forse il ministro presume che il primo pensiero di un infortunato sia di acquistare per corrispondenza una macchina fotocopiatrice, dato che certamente non potrebbe assentarsi per andare in cartoleria nell’orario di apertura? E non basterebbe, in questa Italia soffocata dalla burocrazia, modificare il predetto certificato con una ulteriore parte a ricalco, che il lavoratore possa trattenere? Insomma, fatte le nuove regole, ci si accorge come al solito che qualcosa viene dimenticato. Il lupo perde il pelo, ma non il vizio.
Il calo delle assenze nella pubblica amministrazione non è certo un male (al di là dei discutibili criteri di lettura dei dati), ma le trascuratezze delle nuove procedure non sembrano in verità sinonimo di una ritrovata efficienza.

giovedì 4 settembre 2008

Viva i furbi

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Il mondo, dicono in molti, appartiene ai furbi. O forse solo l’Italia, ma per noi fa lo stesso. Perché mai dovrebbe fare eccezione una rampante donna in carriera, passata con rapidità vertiginosa da un’avvocatura mai esercitata (perché sostituita dalla passione politica) alla poltrona ministeriale?
La ministra Gelmini, attuale titolare dell’Istruzione, a suo tempo si era infatti premurata di ottenere la prescritta abilitazione da avvocato tramite l’esame di Stato. Da prima della classe, non averebbe certo dovuto temere l’impegno della prova. Eppure... come resistere nel 2001 alla tentazione di emigrare temporaneamente da Brescia a Reggio Calabria per approfittare di una risaputa condiscendenza? Perché lasciare i ragazzi meriodionali soli ad approfittare di tanta bonarietà? E come avrebbe potuto prevedere, allora, la spregiudicata beniamina di Berlusconi che a distanza di non troppi anni avrebbe assunto i panni della moralizzatrice nei confronti dell’istruzione al Sud, giudicata non senza fondamento scadente nei risultati (ma incolpando prevalentemente, salvo rimangiarsi le parole, l’operato dei soli docenti) ed evidentemente lassista?
Aveva bisogno di lavorare, dice ora Gelmini a mo’ di giustificazione, perché la famiglia “non poteva permettersi di mantenerla troppo a lungo agli studi”. Motivazione quantomeno disinvolta, visto che gli studi erano da tempo terminati e semmai si stava svolgendo il praticantato. E non del tutto coerente, se si pensa che il tipico “post-studente bisognoso” non sottrae tempo al lavoro, o alla sua ricerca, per darsi all’attività politica a tempo pieno, come la nostra ha fatto da subito, comprendendo che le sarebbe di gran lunga convenuto. Insomma, scuse poco logiche, che però il grande pubblico non analizza come tali, preferendo, ne siamo certi, simpatizzare con la (presunta e sedicente) “ragazza povera”.
Visto questo sfortunato precedente, in futuro ci sarebbe da augurarsi che la suddetta ci diletti cimentandosi anche in invettive contro le raccomandazioni, oppure in denunce del servilismo, o ancora in filippiche contro le tendenze truffaldine. Tutti mali che affliggono la società e la politica italiane (e magari anche una piccola parte della burocrazia scolastica) e che meritano di essere denunciati da un’alta cattedra. Sempre che poi qualche indagatore scrupoloso, come in questo caso, non sveli gli altarini: e forse proprio in questo starebbe l’amaro divertimento.
Comunque non vi sono da temere ripercussioni di sorta per un tal genere di infortuni: anzi, in un paese il cui Parlamento rigurgita di inquisiti e condannati, questa “innocente furberia” rappresenta certamente un titolo di merito che vivacizza il curriculum ed iscrive a pieno titolo al vertice della casta: quello, appunto, occupato dai furbi. Né vi è da temere qualche futura penalizzazione elettorale dei medesimi, come sanno bene gli elettori comaschi (a titolo d’esempio) che hanno visto sempre in sella, e riconfermato come assessore, addirittura un condannato per esercizio abusivo della professione medica...

giovedì 28 agosto 2008

Alitalia: l'ennesimo miracolo italiano

Quale imprenditore, trovandosi alle soglie del fallimento, non sognerebbe un colpo di bacchetta magica che facesse pagare ad altri i debiti da lui accumulati, eliminasse il personale in esubero e gli riconsegnasse un'azienda resa più snella e competitiva da alleanze con colossi internazionali?
Per qualcuno, evidentemente, il mondo dei sogni esiste. È il nostro paese, e l'azienda-bidone che verrebbe trasformata in un'avvenente leader del mercato nazionale è Alitalia. Leggendo sui giornali i primi dettagli del piano industriale, ci troviamo di fronte ad un incanto fatato, che segue le promesse elettorali dell'attuale governo. Ma si comincia a capire anche a chi toccherà pagarne i costi.
La parte “cattiva” dell'azienda (coi debiti) viene separata da quella buona, che sarà assegnata ad imprenditori coraggiosi. Grande coraggio, il loro, visto che non pagheranno le azioni allo Stato neppure un centesimo, a differenza dell'offerta di Air France, e che tra qualche tempo saranno liberi di cedere le loro quote al partner straniero, senza l'intervento del quale non si può oggi concludere l'operazione. Tra un po' potremo sapere di chi si tratta. Ma non ci avevano raccontato che bisognava salvare ad ogni costo l'”italianità” della compagnia di bandiera contro le conquiste straniere?
Si salveranno almeno i posti di lavoro, che avevano tanto inquietato i sindacati nelle precedenti ipotesi? Ovviamente no, non si può: i licenziamenti inevitabili sono da due a tre volte più di quelli precedenti, ma ci dicono che occorre rassegnarsi, e che magari il governo potrà riassumere i malcapitati nella pubblica amministrazione, notoriamente a corto di organico.
E come verranno eliminati i debiti? Una volta che azioni e obbligazioni siano divenute carta straccia, spetterà al Tesoro, cioè allo stato, ripianare oltre un miliardo di euro. Oltre ai trecento milioni già erogati come “prestito” ma che a questo punto non rientreranno mai, in barba alle norme europee sugli aiuti di stato.
Questi però sono tutti soldi dei contribuenti. Soldi nostri, gettati al vento senza ottenere in cambio alcun servizio. È vero che in passato ho volato un paio di volte con Alitalia, e forse è una colpa, ma mi sembra eccessivo farmela scontare col costringermi a pagare questo ulteriore balzello.
Magari sarebbe da accogliere il suggerimento di ordine generale che, dalle pagine di “Libero”, lancia il ministro Brunetta: “Se lo stato spreca, fategli causa”. Temo proprio che con Alitalia si stia preparando l'occasione più clamorosa di sperpero che la storia italiana di questi anni potrà ricordare. Non vedo chi potrebbe esserne felice.

giovedì 14 agosto 2008

Patenti di cristianità

Chi certifica l'ortodossia in ambito cristiano? Alcuni risponderebbero che, almeno per il mondo cattolico, tale funzione la esercita il magistero ecclesiastico. Ingenui e sprovveduti: non sanno infatti che i titolari di questo delicato compito sono alcuni qualificati esponenti del centrodestra, quali Gasparri, Giovanardi, Bondi e qualche altro fine teologo del loro livello.
Lo apprende a sue spese la rivista “Famiglia Cristiana”, colpevole di aver espresso posizioni critiche nei confronti dell'operato del governo e perciò, automaticamente, “cattocomunista”. In pratica, una pubblicazione eretica, che si vorrebbe veder bandita dalla “buona stampa” parrocchiale. Criticare in parte il “miracolo” dei primi cento giorni berlusconiani, pur rimarcando il successo del presidente autodefinitosi “spazzino” a Napoli, e però sottolineare la più che probabile impronta propagandistica dei provvedimenti sulla sicurezza, è colpa imperdonabile. I nuovi sanfedisti del PdL si sono trattenuti, nella loro infinita saggezza, dal definirlo peccato mortale, ma hanno inflitto una scomunica de facto al giornalismo non asservito dei sacerdoti di FC (non devono forse praticare le sacrosante virtù dell'obbedienza e del silenzio?) e, trasversalmente, a tutti quegli uomini di chiesa che scelgono di stare dalla parte degli ultimi anziché blandire il potere politico, aspettandosene chissà quali vantaggi.
Bondi li ammonisce: sono intellettuali, lontani dal popolo delle parrocchie che invece brama durezza contro i Rom e soldati nelle strade. Sondaggi alla mano, magari ha pure ragione. Però è strano sentir attribuire alla Chiesa il compito di assecondare le tendenze egoistiche del suo gregge, e non di proporre un'apertura e una solidarietà pur fuori moda, ma forse un poco più vicina allo spirito e alla lettera del Vangelo.
Il direttore di una rivista cattolica non rappresenta certamente la gerarchia né il Vaticano. Ma se egli chiede al governo per cui ha votato di mantenere le promesse sui temi della solidarietà sociale e soprattutto del sostegno alla famiglia (non quella astratta dei proclami, ma quella in carne ed ossa della vita quotidiana) viola forse qualche dogma? Se si permette di criticare una filosofia politica neppur troppo nascosta che erige l'individualismo a valore, che alimenta paure irrazionali e strizza l'occhio alla xenofobia, per non dire delle misure legislative ad personam, dell'ostentazione cafona della ricchezza e del successo, dello svilimento della figura femminile, diviene automaticamente “criptomarxista”? O non tiene piuttosto ad esercitare, secondo la sua vocazione, la libertà del credente che spera in un'umanità rinnovata secondo un ideale di amore universale, e che non si accontenta delle contrapposizioni sterili, dei rifiuti, e chiede alla politica autentici segnali di promozione umana?
I modi e i toni delle critiche, certo, possono sempre essere discussi, e a loro volta criticati. Ma è consentito auspicare che, almeno ogni tanto, chi ha responsabilità di governo replichi con la concretezza dei fatti anziché con patetiche accuse di comunismo, anatemi stizziti e la pretesa di essere giudice della fede altrui?

venerdì 8 agosto 2008

Micioni castrati: citazioni tra passato e presente

“Se la Repubblica italiana è diventata la repubblica della partitocrazia una grande responsabilità l'abbiamo anche noi giornalisti. Anziché ringhiare come cani da guardia, abbiamo fatto le fusa come i micioni castrati accanto al caminetto di chi comanda”. Così scriveva Giampaolo Pansa sul “Corriere della Sera” il 13 maggio del 1993.
Quindici anni dopo può fornire qualche spunto di riflessione una serie di citazioni provenienti da quel mondo remoto, ove ci si poteva illudere che la politica avrebbe subito una trasformazione radicale, e ancor più che il giornalismo italiano avrebbe cambiato volto. Quale migliore occasione di Tangentopoli e della critica radicale al sistema politico di allora per abbandonare l'atteggiamento descritto da Pansa, uscendo dalle pastoie dell'“advocacy journalism” (quello che conosce la verità ancor prima di conoscere i fatti) per tendere, almeno in parte, verso una maggiore imparzialità. Magari per porsi, nei confronti del potere – di ogni potere – come il “cane da guardia” della tradizione giornalistica anglosassone, teso in primis all'interesse del lettore e alla difesa della democrazia. Un puro sogno? Ciascuno può valutarlo considerando il presente ed il recente passato, a partire dal confronto con questa fotografia della situazione di quei primi anni Novanta (quando, se non altro, l'uso della lingua italiana era soggetto ancora a qualche forma di controllo sintattico-grammaticale e di aspirazione alla qualità che oggi sembrano essersi completamente dissolti, soprattutto nei TG, ma anche sulla carta stampata).

«La colpa, l'eterna tentazione, e alla fine la vera corruzione, è l'intimità con il potere, perché significa rinunciare al proprio compito e al proprio dovere... Troppo spesso tutto ciò è stato dimenticato nella convinzione diffusa di far parte di una superclasse che annullava i confini tra i potenti e i giornalisti in un parassitismo reciproco pronto a calpestare gli interessi dei lettori» (Ezio Mauro, La Stampa, 14.3.1994).
«È mancato finora nella mappa cromosomica dei giornalisti italiani quello spirito antagonista che ne dovrebbe fare i controllori dei potenti» (Vittorio Roidi, L'Europeo, 21.5. 1993).
«Troppo spesso ci siamo accontentati di una informazione di Palazzo, appagati dal “tu” accattivante che ci veniva elargito dai potenti» (Claudio Alò, Corriere della Sera, 21.7.1993)
«I giornali non chiedono più le inchieste, hanno capito che le inchieste sono pericolose, che in un modo o nell'altro si lede sempre qualche interesse economico... I grandi giornali appartengono a un pugno di grandi aziende che si aiutano tra loro» (Giorgio Bocca, L'Europeo, 21.5.1993)
«In Italia per oltre quarant'anni non c'è mai stata un'informazione televisiva degna di questo nome. E, purtroppo, non è una esagerazione affermare che i telegiornali italiani sono i peggiori del mondo occidentale industrializzato... non arriviamo a capire come possa essere permesso a delle persone incompetenti di fare questo mestiere... In parole povere, non c'è quasi nessuno che sopravviverebbe un solo giorno in uno dei network americani o in qualunque altra televisione seria» (Wolfgang Achtner, corrispondente della CNN, Micromega, 1/1994).
«Ci si rifugia nell'aneddoto, si cancella la memoria storica; si osservano le vicende con sguardo acritico... Si pubblica qualsiasi cosa, purché sia nuova: senza storicizzarla e senza vagliarla; senza fornire ai lettori gli strumenti per capire. Anche questa, forse, è una mancanza di deontologia» (Marcelle Padovani, corrispondente del Nouvel Observateur, Il Messaggero, 14.3.1994).
«Un cameratismo, e anche peggio, tra politici e giornalisti, tra imprenditori e giornalisti, ha spesso preso il posto di quel distacco e antagonismo che producono un'informazione spassionata» (Roger Cohen, Gannet Center Journal, primavera 1990).
«Mentre nella teoria liberal-borghese l'informazione giornalistica è pensata come soggetto “altro” dal sistema politico/economico e, per molti versi, anche dai privati cittadini che essa pretende di rappresentare, la stessa cosa non avviene nel modello che si è venuto realizzando in Italia, dove esiste una forte compenetrazione tra élite dei media ed élite politiche, o più generalmente élite del potere, tale che spesso finiscono con lo sposare il punto di vista delle aree culturali e politiche alle quali esse sono, in misura diversa, collegate» (Paolo Mancini, novembre 1991)

venerdì 1 agosto 2008

Ironia

Saper riconoscere la propria ignoranza, in un mondo in cui tutti pontificano (compresi, da qualche anno in qua, calciatori ed attricette) è impresa difficile: eppure, come insegna Socrate, è veramente sapiente solo chi sa di non sapere, non chi s'illude di essere già “a posto”, volendo ignorare così la sua stessa ignoranza; oppure chi, come nel caso del politico, la dissimula dietro certezze o furbizie che si possano “vendere” bene per ottenere consenso.
Solo chi sa riconoscere il proprio limite avverte il bisogno di conoscere, mentre chi si crede in possesso del sapere non coglie la necessità e il valore della ricerca, così da non prendersi cura di sé e da rimanere irrimediabilmente lontano dalla verità e della virtù.
Socrate, com'è noto, ritiene che l'ironia rappresenti il mezzo per risvegliare negli altri la consapevolezza della propria ignoranza, stimolando il dubbio e l'inquietudine per impegnarli nella ricerca. Essa è il fondamentale antidoto alla boria e all'arroganza del saccente, del sedicente esperto, del potente di turno.
Come mostrano gli atteggiamenti seriosi e un po' tetri di chi esercita il potere (magari dissimulati sotto mentite spoglie, come quelle di gran barzellettiere), nella sfera pubblica non è molto praticata la capacità di mettersi in discussione.
Quanto giova, infatti, nella sfera politica il mostrarsi aperti, possibilisti, umili? O per convincere ed irretire gli elettori, i sodali (e, con minore difficoltà, i servi) non occorre piuttosto presentarsi come personaggi dalle granitiche certezze, convinti di aver sempre ragione, e ovviamente privi di senso del ridicolo?
L'ironia socratica, smontando questa ipocrisia più o meno consapevole, tende anzitutto a mettere l'uomo in chiaro con se stesso, per portarlo al riconoscimento dei propri limiti e renderlo giusto: politicamente parlando, solidale con gli altri cittadini, fedele all'ideale di giustizia.
Il dubbio e l'inquietudine non accompagnano perciò una condizione di debolezza, ma di franca ammissione che non si possiede la verità una volta per tutte. Essi sono dunque la condizione per poter avviare una ricerca scevra da pregiudizi, uno stimolo prezioso per guardare alle cose in maniera profonda, nonché per avviare un vero dialogo con gli altri. Presuppongono in chi li usa una reale intelligenza, nel senso etimologico, come capacità di “leggere dentro” le cose.
Può diventare un modo di procedere diffuso? Solo in proporzione all'interesse per ciò che Socrate definiva la “cura della propria anima”. Quindi, probabilmente no.
Se la superficialità rassicurante dei luoghi comuni viene meno, manca infatti la materia prima per molti politici, che indirizzano l'opinione generale, la doxa, proprio grazie a questi preziosi alleati (tutti gli zingari rubano, gli statali sono fannulloni, il fantomatico popolo lumbard discende dai celti, destra è sinonimo di ordine, efficienza e responsabilità...). Col supporto dei media compiacenti o poco abituati a verifiche e riscontri fattuali, la politica degli annunci si rivela così la più pagante. L'importante è avere faccia tosta a sufficienza, mostrarsi sicuri di sé, coprirsi da soli di pubbliche lodi e denigrare sistematicamente quanto fatto dagli altri. E, soprattutto, non tollerare in proposito scetticismi.

martedì 29 luglio 2008

Neolingua

Non nuovo ad acrobazie verbali, in questi giorni Berlusconi sfodera dal cilindro la dichiarazione che la sua è una “vera politica di sinistra”.
Questo avviene in contemporanea ad una manovra economica tanto popolare da contenere un emendamento che mira a introdurre la precarizzazione a vita di varie categorie di lavoratori e una norma che abolisce le pensioni minime per chi non abbia versato contributi per almeno 10 anni: correndo precipitosamente ai ripari, ci viene detto che riguarderà solo gli extracomunitari, ma intanto non è stata scritta così.
Si vara peraltro una Robin Hood Tax che inciderà sensibilmente su azionisti e consumatori (petrolieri e banchieri hanno una lunga tradizione nello scaricare verso il basso i loro aggravi, e solo le anime belle credono diversamente) per 5 miliardi di euro, a fronte dei quali si dispone un'elemosina di ben (!) 200 milioni per gli anziani indigenti con la Social Card.
Si grida che il nemico è alle porte istituendo l'ennesima “emergenza clandestini” generale, considerata dalla gran parte degli osservatori e dalla Chiesa come semplice fumo negli occhi. Si aboliscono sistemi di controllo dell'evasione fiscale introdotti da pochi mesi, terminata cioè la fase di assestamento e di iniziale disagio. Si prepara lo straordinario “pacco” Alitalia, con più licenziamenti, minori investimenti, minori dimensioni, minore competitività e ampie zone oscure rispetto alla dileggiata proposta di Air France (si legga Gianni Dragoni sul Sole-24 Ore del 25 luglio, p. 24).
Tutto questo, apprendiamo, è una politica “di sinistra”.
Dato che stravolgimenti lessicali di questa portata, come ci insegna Orwell, sono caratteristici delle dittature totalitarie – niente, ne siamo certi, è più lontano dallo spirito dell'attuale condottiero di un'Italia felicemente rinnovata – sarebbe bene che egli si attenesse a distinzioni più convenzionali e anche più precise. Non si vergogni, non abbia paura di affermare che segue politiche di destra: dopotutto, più o meno consapevolmente, gli elettori lo hanno votato per questo.
O forse voleva alludere al fatto che questo governo muove i suoi primi passi aumentando la pressione fiscale (cosa ammessa persino dallo schieratissimo Giornale). Dunque più tasse per tutti, pardòn, per alcuni, quella non esigua quantità di persone che non ha modo di evadere o di rivalersi su altri. In questo, diamogliene atto, il traguardo della politica di sinistra da lui tanto ambìto, il buon Berlusconi lo può considerare raggiunto.

sabato 26 luglio 2008

Il più grande insegnante del Nord

Alla nutrita collezione del folklore bossiano, che ci ha abituato a tante raffinatezze, puntualmente chiosate come trovate di genialità politica da commentatori sin troppo ben disposti, vediamo aggiungersi le sparate sull'inno di Mameli e sugli insegnanti meridionali. Entrambe, in un paese normale, si commenterebbero da sole e chiuderebbero carriere nel discredito generale; da noi, rafforzano l'immagine del personaggio e la convinzione diffusa che con l'eloquio da bar dell'“uomo forte” di turno... si portano a soluzione i problemi della collettività.
Certo che imputare l'ignoranza ben distribuita in tutte le fasce d'età all'azione dei professori provenienti dal Sud (rei ovviamente anche di sottrarre posti di lavoro, di non insegnare le tradizioni locali e di non divulgare le benemerite tesi federaliste) è una formidabile sfida al buon senso e alla realtà dei fatti. Tanto più che, sugli scarsi livelli di acculturazione, movimenti come quello leghista costruiscono le loro fortune, grazie anche alle traballanti mitologie di cui imbottiscono crani non particolarmente muniti.
Ma la notizia assume ben altro rilievo se la si mette in relazione con la denuncia delle crudeli persecuzioni subite proprio da uno studente padano, bocciato all'esame di stato per la colpa di aver portato una tesi su Carlo Cattaneo. Come non provare un moto di sdegno pensando che l'odio razziale di cui i lumbard sono notoriamente vittime possa toccare simili vertici? Poi, per fortuna, veniamo ricondotti ad una dimensione meno surreale dalla constatazione che il diretto interessato altri non è che il figlio del senatùr, il giovane Renzo, che nonostante il collegio privato e la commissione nella quale i docenti meridionali latitavano, ha deluso l'augusto quanto protettivo genitore non conseguendo la promozione.
Meglio dunque sfogare il malumore politicamente, ossia – data una certa concezione della politica – cercando un capro espiatorio da coprire di contumelie: gli insegnanti del sud, gente ritenuta con tutta evidenza indegna di accostare i teneri rampolli della terra padana. come probabilmente tutti coloro che non hanno legami di sangue con Carlo Cattaneo (lui sì, vittima incolpevole, ma della strumentalizzazione leghista).
Ci troviamo di fronte alla difesa, dunque, di un nobile principio, dei puri valori della conoscenza? O non, piuttosto, all'ennesima conferma che a forza di promuovere particolarismi e localismi è facile debordare, pensare in termini rozzamente individualistici, deformare la realtà a proprio uso e consumo, perseguire il proprio tornaconto (di singolo, di gruppo politico, di “etnia”)?
Se si tiene conto che la radicale Bernardini è appena stata aggredita verbalmente da parlamentari leghisti nel momento in cui ha proposto l'abolizione dei privilegi sui trasporti (treni, aereo, autostrade) di cui godono gli ex parlamentari, nonché di esigere la rendicontazione di quanto viene speso per i portaborse, il quadro sembra completo.
La sensazione, non certo da ora, ma sin dai primi tempi dell'attività parlamentare (leggi l'esemplare cammino della Pivetti) è che molti “difensori del popolo” nordico siano bravissimi nell'additare sprechi e favoritismi di “Roma ladrona”, salvo poi, una volta raggiunte posizioni di potere, essere in prima fila nel voler passare all'incasso, nel pensare a come costruirsi comode carriere all'ombra del padrone del “movimento”.
L'esempio, infatti, conta. Tutti ricordiamo come Bossi avesse tentato, a suo tempo, di piazzare al Parlamento Europeo come portaborse assolutamente sprovvisti di qualifiche il fratello e un altro figlio; per giunta, più volte egli ha pubblicamente indicato in questo o quel figliuolo un “erede” destinato a succedergli (preparando di fatto il popolo leghista a vederli in futuro occupare un qualche posticino “per meriti politici”); da ultimo, cerca ora di consolare il figlio bocciato all'esame presentandolo come un caso di persecuzione razziale sui generis.
Sempre mantenendo la serenità e, perché no, lo stile unico che lo caratterizza (stile governativo, ironizzava Scalfaro). Tanto i voti li prende comunque, qualunque cosa dica: è autentico carisma. Per immunizzarsi, ritengo sia sufficiente richiamare le parole del rettore del collegio (peraltro pressoché unico meridionale della commissione esaminatrice): “Il padre, dicendo le cose che ha detto, prima di tutto non fa il bene del ragazzo”. Forse non fa neppure il bene di tutti quelli che lo prendono sul serio.

lunedì 21 luglio 2008

Informazione dall'estero: al solito, che pena...

Lo osservava un rapporto di qualche mese fa, realizzato da “Medici senza frontiere” in collaborazione con l'Osservatorio di Pavia, sull'attenzione alle aree di crisi nel mondo. Queste situazioni drammatiche, che per la gran parte dell'informazione estera “fanno notizia” e vengono quindi coperte in maniera variamente approfondita, nell'informazione italiana, soprattutto televisiva, sono quasi completamente trascurati e solo in qualche caso raggiungono i margini dei notiziari, generalmente in orari impossibili per il grande pubblico.
Non ci si dovrebbe meravigliare troppo, dato che in Italia si chiamano “telegiornali” anche contenitori di pettegolezzi, intrattenimenti e “lanci” pubblicitari mescolati con qualche fatto di cronaca, quasi sempre trattato con una professionalità scadente o assente (interviste sul caldo, persecuzione dei parenti delle vittime con domande ripugnanti su come si sentano o sul perdono da concedere, fino alle interviste con citofoni silenti o calciatori monosillabanti). Non casualmente, l'informazione politica perde essa pure qualsiasi tratto di obiettività, e diventa faziosa, censoria, parziale, fino a perdersi nell'adorazione smaccata del padrino politico (il fatto che in ampia misura esso coincida con il padrone-proprietario è un'altra peculiarità tutta italiana cui nessuno ha voluto porre argine).
Quando infine si è proprio costretti ad affrontare tematiche internazionali, si finisce il più delle volte per assistere a scalcinate riproposizioni dei più vieti stereotipi, quali la semplificazione tra buoni e cattivi, l'estremizzazione delle contrapposizioni, il ripiego sul gossip (esemplari in tal senso i servizi provenienti dal Regno Unito), l'esaltazione di qualche spunto patriottico-provinciale (vi è un raduno, in acque francesi, di velieri storici provenienti da tutto il mondo? Si parla solo ed esclusivamente dell'Amerigo Vespucci!).
Limitandoci solo a questa mattina, è stata esemplare la pietosa condotta del TG2, che trattava la vicenda della bimba malmenata e ridotta in fin di vita a Roma dal padre squilibrato, di nazionalità francese... parlando da Parigi, di fronte ad un'edicola, lamentando il fatto che i giornali d'oltralpe non si sognano di dare alla notizia lo stesso, ossessivo risalto che le concedono tutti i TG e quotidiani nazionali! Un vertice di professionalità (alla rovescia, ovviamente: andrebbe piuttosto definito un abisso), che naturalmente brucia spazi preziosi di informazione a vantaggio del solito moralismo d'accatto.
Squallida ed inconcludente è poi la competizione tra TG, quando si verificano crisi di grandi proporzioni e le varie testate provvedono alla spedizione degli inviati, tesi a fornire “ultime ore” tutte uguali, da apprezzare magari per l'anticipo di pochi minuti rispetto alle altre, anziché gli elementi per comprendere quanto sta avvenendo negli altri paesi. Tutti nello stesso luogo, cancellando di fatto il resto del mondo che viene accantonato per rispondere a quelle che si credono “esigenze del mercato”.
Conclusione: tra i cittadini europei, gli Italiani hanno una informazione tra le più limitate, scadenti e provinciali. Ma se ne accorgono?

lunedì 14 luglio 2008

Bronislaw Geremek ci ha lasciati

Muore improvvisamente un uomo che ha rappresentato molto per il suo paese e per l'Europa intera. È una perdita autentica per il riformismo nel nostro continente. A me è sembrato sempre un modello di stile e coerenza che può insegnare molto, al di là delle specifiche posizioni, a chi si dedica all'attività politica. Purtroppo, per tanti, essere un intellettuale - seriamente, guardando oltre le convenienze, senza chinare il capo di fronte al potere - è un serio difetto...
Riprendo una delle sintetiche biografie messe in rete in queste ore, e un rimando ad un lucido saggio sulla centralità dell'educazione nel processo europeo: http://universitas.fondazionerui.it/portal/page/categoryItem?contentId=47286

Professore, intellettuale, storico, politico, uomo. Bronislaw Geremek lascia dietro di sé un vuoto profondo nella coscienza polacca e europea. Stimato sia a destra che a sinistra. Conosciuto a livello internazionale per l'intelligenza e l'acutezza delle sue idee, Geremek ha segnato la storia della Polonia per oltre un quarto di secolo.
Uomo mite, raffinato nei modi, è stato uno dei massimi esponenti dell'intellighenzia polacca durante il regime comunista. Protagonista della transazione democratica, partecipando alla Tavola rotonda del 1989, è stato deputato presso il parlamento di Varsavia per oltre dieci anni, ricoprendo tra il 1997 e il 2000 la carica di ministro degli Esteri. Fu lui nel 1999 a firmare lo storico ingresso della Polonia nella Nato.
Eurodeputato dal 2004 nel gruppo 'Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l'Europa' è sempre stato un fervente sostenitore dei principi fondanti l'Unione europea. Titolare di cattedra presso il prestigioso College d'Europe, ai suoi studenti ripeteva sempre che "l'Europa doveva rappresentare una seconda patria. La patria di tutte le famiglie storiche, culturali e sociali del vecchio continente".
Tra gli intellettuali più attivi durante il regime comunista, Geremek è stato fin dal 1968 - dalla repressione violenta della Primavera di Praga - un fermo oppositore della dittatura fino a sposare nel 1980 le proteste degli operai dei cantieri navali di Danzica. Incarcerato per oltre un anno durante il periodo della legge marziale in Polonia, dal 1982 è divenuto stretto collaboratore e consigliere del leader di Solidarnosc, Lech Walesa.
Le cronache del tempo riportano spesso il famoso aneddoto del primo incontro tra Geremek e Walesa nei cantieri di Danzica. Un incontro che ha segnato la storia futura polacca e che rappresenta la riunione tra la classe operaia e il mondo degli intellettuali per il bene e la lotta comune. "Stavo parlando (a Walesa, ndr) da non più di dieci minuti sui documenti che noi intellettuali potevamo scrivere per mettere pressione al regime, spiegando strategie e teorie contrastanti. Finisco la frase e Walesa era sparito! Dopo cinque minuti tornò con delle carte dicendomi: il presidio dei promotori dello sciopero ci ha affidato l'incarico di formare due gruppi di esperti". Pragmatismo unito alla teoria. Un legame, una sorta di fascino personale che è rimasto negli anni tra Geremek e Walesa, anche quando tanti anni dopo le loro strade politiche si sono divise.
Insieme ad Adam Michnik, Tadeusz Mazowiecki e Lech Walesa, Bronislaw Geremek fu uno dei principali protagonisti della Tavola rotonda nel 1989 - negoziati tra gli esponenti del regime e quelli dell'opposizione e di Solidarnosc - che traghettò pacificamente la Polonia alla democrazia.
Politico di lungo corso e libero pensatore non ha mai nascosto il suo dissenso nei confronti dei fratelli Kaczynski, Jaroslaw l'ex-premier e Lech l'attuale presidente. Destò scalpore e suscitò non poche polemiche la decisione nel 2007 di non sottoporsi ai procedimenti di "Lustracja", che intimavano a tutti gli uomini politici e intellettuali di dichiarare di non aver mai collaborato con il regime comunista, lanciando dai banchi dell'Europarlamento un fragoroso attacco politico contro l'allora governo social-conservatore di Jaroslaw Kaczynski, primo fautore dell'inasprimento dei regolamenti della Lustracja.

sabato 12 luglio 2008

Nothing Is Easy

Ricoprire l'avversario-demonio di insulti, dare una valvola di sfogo alla propria impotenza, far parlare di sé sui media; e insieme denunciare un pericolo reale per la democrazia, opporsi a uno sconcio istituzionale e ad un ulteriore svuotamento delle prerogative parlamentari. Soprattutto dare voce ad un malessere profondo, che non è però quello della maggioranza dei concittadini, in forme scomposte, rispondendo all'arroganza con l'arroganza, alla violenza verbale (larvata, subdola, pervasiva) con la violenza verbale (esplosiva, liberatoria ma assolutamente sterile). Il trionfo dell'antipolitica, che è sempre, indirettamente, un successo per la cattiva politica.
Questo mi sembra sia essere il senso della manifestazione romana dell'8 luglio: il risultato prodotto, al di là delle intenzioni, è semicatastrofico. Politicamente non raggiunge neppure la parità con l'avversario, per l'ulteriore discredito che porta alla causa dell'antiberlusconismo, offrendo forti appigli e giustificazioni alla tendenza di segno opposto. Che non è, lo sappiamo bene, sorretta dalla forza della ragione, dal senso dello stato, dal primato del bene comune, ma da un più banale e primitivo ossequio al capo, consacrato dal popolo, e perciò legittimato a fare ciò che vuole. Non a caso, per effetto delle decisioni prese a colpi di maggioranza, lo si è messo al riparo da ogni imbarazzo giudiziario, come un sovrano assoluto.Bisognava tacere? Al contrario. Ma se non si presta attenzione ai modi e se non si ha veramente a cuore il convincimento di chi ha un'idea diversa, ci si riduce al semplice gettargli in faccia il nostro disprezzo. Si ribadisce la propria debolezza e, insieme, si consente al benpensante di turno di rifugiarsi nelle certezze preconfezionate (il leader buono aggredito da magistrati e piazze comunisti, l'attitudine puramente distruttiva della sinistra, e via dicendo).
Con scontate capacità di previsione, il giorno prima Ernesto Galli della Loggia condannava questo genere di moralismo come “il modo classico in cui la sinistra declina la tendenza all'antipolitica che da sempre, e oggi piu che mai, alligna anche nelle sue file. Laddove la destra è abituata a declinare l'antipolitica nelle forme del disincanto qualunquistico spinto fino al cinismo, la sinistra, invece, l'incanala in quelle dell'eticismo condotto al limite dell'arroganza di tipo razzista”. Di qui il trittico dogmatico consistente nella convinzione di avere in esclusiva il copyright del bene, di dover essere tutti uniti contro il male (assoluto), e di alimentare la purezza con la durezza.Una riflessione in parte condivisibile, ma che rischia, nei toni di molti commentatori, di assolvere frettolosamente molte delle procedure comuni alla pratica politica, sino al piccolo e medio cabotaggio dei compromessi più ignobili. Infatti, nel nostro paese, si dice spesso “moralismo” inglobando in questo concetto anche quello di “moralità”. Raccomandazioni, servilismi, distorsione sistematica dei fatti nell'informazione, accesso a posti attraverso ricatti e/o concessione di favori (sfera sessuale inclusa), evasioni degli obblighi fiscali e disaffezione civica hanno spesso trovato pubblici difensori, beninteso in toni elusivi, tramite ragionamenti indiretti, lamentando in sostanza che gli esseri umani non possono essere santi, che così va da sempre il mondo, eccetera. Una sagra dell'ipocrisia di cui non importa qui elencare i campioni, visto che trovano sempre nuovi emuli.
Si può perciò condannare il moralismo e dichiararne i guasti, ma va fatta estrema attenzione alla facile autoassoluzione che i “furbi” sono prontissimi a costruirsi. Esattamente come l'antipolitica è pericolosa ed ingiusta nel rendere superflua la fatica di pensare, di misurare, di distinguere, e nel condannare chi invece intenda ragionare e dialogare con tutti sul merito dei problemi, è però una faciloneria non innocente anche quella di chi prescinde, sempre e comunque, da considerazioni etiche, da un ideale di giustizia, a volte gettando a mare anche il puro buon senso.
Credo che le passate vicende di un intelligentone politico come D'Alema, nel suo storico confronto con Berlusconi, ne rappresentino la più efficace delle illustrazioni. Se qualcuno non ne fosse convinto mi illustri, per favore, gli straordinari successi ottenuti nel tempo da questa Realpolitik all'amatriciana; quali benefici abbia portato al centrosinistra; quale sensibilità ed efficacia abbia dimostrato in tema di conflitto di interessi e di antitrust mediatico; quale incremento dei consensi nel paese.
Moralità, intelligenza politica e capacità di dialogo onesto sono un connubio difficile da realizzare, è vero. Una strada stretta, che richiede probabilmente più impegno di quanto la classe dirigente che ci ritroviamo sia disposta a concedere. I furbi, classicamente, preferiscono le scorciatoie di ogni genere e il lavoro nell'ombra. Con gli effetti che tutti vediamo.

martedì 8 luglio 2008

Campane di vetro

Esami di stato 2008. Assistiamo ad un'altra geniale trovata (forse partorita dalla stessa mente di funzionario che ha formulato le prove di Italiano): i voti finali non sono più resi pubblici. Tutti i candidati possono leggere unicamente se l'esito è stato “positivo” o meno. Per conoscere il dettaglio più importante, il punteggio, si devono recare alla segreteria della scuola e presentare regolare domanda. Inutili code e perdite di tempo, ore-lavoro e carta sprecati, un alone di riservatezza che confina con l'omertà: e tutto questo in nome di cosa? Di un paradossale senso della privacy? Della tutela di una psiche fragilissima che non sopporterebbe il confronto con i voti dei compagni di classe? A parte che, in tal modo, sui tabelloni si dà ancora maggiore risalto all'esito negativo rispetto alla pubblicazione del punteggio, stiamo rapidamente abituandoci ad un deficit di trasparenza nelle comunicazioni degli esiti che rischia di innescare effetti controproducenti.
Come se il confronto avesse una funzione depressiva, anziché di stimolo. Come se il merito fosse di per sé un elemento da mantenere riservato, per non nuocere all'autostima altrui. Come se i cittadini, a cominciare dall'età scolare, andassero assuefatti all'idea di non dover rendere conto pubblicamente di quanto avviene nei contesti pubblici.
O, magari, per convalidare l'impressione che un arbitrio nascosto, o una classicissima raccomandazione, siano ben più efficaci, nel sistema italiano, rispetto alle capacità effettive. In effetti, nel mondo anglosassone, così attento al tema del rispetto della sfera privata, simili parossismi sono del tutto sconosciuti. Si dà per scontato che la sfera pubblica sia trasparente in ogni suo aspetto. Per non dire del ruolo investigativo della stampa, che con tutti i suoi limiti è a distanze siderali da quella italiana, e non si limita certo allo stillicidio delle intercettazioni telefoniche, cioè a guardare dal buco della serratura.
Da noi accade l'inverso. A quando, dunque, il mistero anche sull'esito dei concorsi pubblici, così da riempire ben bene di fumo la campana di vetro?

giovedì 3 luglio 2008

Ipocrisia

Un mostriciattolo capace di assumere molti volti. Sicuramente a suo agio in politica, dove lo si incontra anche troppo spesso. Questi giorni ce ne mostrano la forma più sguaiata, nel più classico gioco delle parti.
Se il presidente del consiglio raccomanda attricette, non svolge certo un'azione meritoria, agli occhi della zia suora come a quelli degli italiani.
Dalla vicenda, priva di rilevanza penale, emerge però uno squallore ben noto, quasi un'ovvietà nel paese delle raccomandazioni – e perciò, lo ricordiamo, della mortificazione del merito, dello scadimento generale della qualità, della corruzione diffusa.

Ma il problema, nella grande maggioranza degli interventi, sembra essere tutt'altro: che si osi rendere pubblico e denunciare il fatto. Magari nei toni rozzi di un Di Pietro (peraltro azzimato gentleman se confrontato alla media delle sparate borghezian-bossiane, ma lasciamo stare). Apriti cielo! Si scatena una canea di difensori oltre misura, che non soltanto rimproverano la volgarità degli epiteti, ma si dedicano alacremente alla creazione di una cortina fumogena ad hoc. Soprattutto si sentono in dovere di sparare sul PD, che non si dissocia abbastanza dal piccolo alleato e quindi ne sarebbe succube, precipitando verso un dissennato estremismo che turba il dialogo.

Spudorati. Il dialogo non è possibile perché non lo vogliono e non lo cercano. Altro che confronto: conoscono un solo atteggiamento, la sottomissione, e neppure si accorgono di quanto siano ridicoli nel pretenderlo da un'opposizione che vorrebbero completamente supina.

Senza vergogna. Tanto da indurre a pensare che la disponibilità ad entrare nelle grazie del padrone superi abbondantemente quella delle signorine raccomandate.

Parlare d'altro. Questa la priorità delle priorità. Per non occuparsi dello squallore di questo ceto politico al potere, dell'inefficienza e dei fallimenti passati e prossimi venturi: (prepariamoci, ad esempio, a veder ancora attingere abbondantemente al portafoglio dei cittadini per mantenere il carrozzone-Alitalia). Con la maschera di una politica tutta fatta di annunci, conflitti di interessi e poco altro.

Fino a quando?

mercoledì 2 luglio 2008

Dialogo in politica? Magari, se appena si fosse capaci di ascolto (e onesti)

“Quattro occhi vedono meglio di due”: così recita un noto proverbio. Ma questo principio di saggezza popolare non sembra davvero molto praticato nel confronto politico attuale, dove sembra accadere di tutto, tranne che l’instaurarsi di un dialogo costruttivo tra posizioni diverse.
È certamente legittimo che ciascuno ritenga di avere le migliori soluzioni ai problemi della “cosa pubblica”, e ancor più che abbia il diritto di metterle in pratica quando riceve il mandato popolare: da qui a pensare di avere sempre e comunque ragione, però, ce ne corre. Soprattutto perché occorrerebbe avere sempre come faro l’interesse generale, in maniera trasparente e non viziato da interessi di bottega
Ascoltare le opinioni altrui è segno di rispetto e di prudenza, e insieme rappresenta un aiuto importante per sottoporre a verifica, e magari migliorare, i propri progetti. Mentre la rinuncia all’ascolto si manifesta sempre più spesso nell’indifferenza e nel fastidio per le osservazioni e le proposte che provengono “dall’altra parte”, che si tratti di una maggioranza sorda ad ogni emendamento dell’opposizione, oppure di un’opposizione arroccata nel rifiuto preconcetto delle altrui proposte. Pessima abitudine, ormai diffusa non solo tra gli schieramenti politici avversi, dato che conosciamo bene non solamente carismatici “uomini soli al comando”, ma pure semplici sindaci che non riescono proprio ad ascoltare le indicazioni delle opposizioni, e anche verso i sostenitori ostentano a più riprese sordità. L’unico parametro riconosciuto sembra essere la sottomissione. O così, o sei fuori.
A chi giova tutto questo? In realtà a nessuno. Quel che di certo si ottiene è il progressivo deteriorarsi dei rapporti di convivenza civile, assieme alla perdita della capacità di mediazione, che non consiste necessariamente in compromessi scialbi e confusi. Nulla di grave, per chi coltiva un atteggiamento narcisistico e decisionista: costui ama sentire soltanto sé stesso, è per principio chiuso al riconoscimento dell’altro, e lo accetta solo come semplice spettatore. Ha invece di che preoccuparsi chi vede così compromessa l’essenza del gioco democratico, che è molto più un “ragionare insieme attorno a un tavolo” che non un “chi vince piglia tutto”: alla fine, che vantaggio può venire dal lacerare una comunità, anziché tentare di raccoglierla intorno a valori ampiamente condivisi? Non l’arrogante, bensì solo chi è veramente forte, non teme di mettersi in gioco in un dialogo autentico: saldo nei propri principi e insieme disposto a migliorarsi, egli considera le altre persone portatrici di ragioni che non devono essere sottovalutate, ma – appunto – valutate per quello che sono. Forse, oggi, è proprio questa forza che manca, non solo nei rapporti tra maggioranze e opposizioni, ma anche nelle dinamiche interne ai partiti.

martedì 1 luglio 2008

Berlusconi come Socrate v 2.0: punto e daccapo

Già nell’estate del 2002 accoglievo con qualche perplessità la notizia che l’Apologia di Socrate venisse rappresentata in varie città italiane a cura di Marcello Dell’Utri, e fosse stata proposta anche ad un corso di formazione di Forza Italia a Gubbio. In un primo tempo mi era venuto in mente che forse un più opportuno testo classico di riferimento sarebbe stato l’Encomio di Elena di Gorgia. Su una posizione antitetica a quella di Socrate, i sofisti infatti sapevano come trarre d’impaccio, con le loro argomentazioni, anche gli imputati meno difendibili...
Ma presto mi sono riavuto dall’ingenuo stupore, pensando che i semi gettati nell’animo dei convenuti, per giunta in una terra di lupi convertiti, avrebbero prodotto di certo buoni frutti col passare del tempo. Oggi, a distanza di sei anni, e di fronte a norme “blocca processi”, non ne sono più sicuro, anzi mi confermo nell’opinione che – fossimo in un paese normale – questi tentativi scivolerebbero nella farsa, nel disgusto generale. Invece sono serissimamente sostenuti con effetti tragici, più che comici, per chi abbia un minimo senso comune della giustizia. L’esito del voto di aprile (sacro, intangibile, e una volta tanto a prova di brogli) porta alla logica conclusione che questo in Italia non è merce molto diffusa, o è comunque barattato con il primo piatto di lenticchie.
Quello però che appariva più interessante nell’operazione culturale era la manifesta volontà di istituire un paragone tra la figura del filosofo ateniese, primo grande “perseguitato politico” della storia, e gli imputati nei noti processi in corso (forse ancora per poco). Tanto più che lo stesso Dell’Utri – nel frattempo condannato – dichiarava di stare “bevendo la sua cicuta goccia a goccia”.
Un parallelismo toccante, non c’è dubbio, che ieri come oggi fa nascere istintivamente il desiderio di difendere i “buoni” dalle prepotenze dei “cattivi” magistrati. Poiché di animi generosi in Parlamento se ne trovano in quantità (ivi portati da una legge giusta e santa), ecco che si spiega la fioritura di iniziative legislative in soccorso dei perseguitati nello scorso mandato del centrodestra, che non si può dubitare destinata a ripetresi al presente. Ma, contrariamente alle sospettose opinioni di un’opposizione per principio menzognera, si deve notare che questi raffinati intellettuali, sia pure al servizio del Principe, vogliono conformarsi allo spirito socratico. Lo fanno, ovviamente, a modo loro.
Cosa fa, infatti, il filosofo, di fronte alla possibilità di sottrarsi alla condanna con qualche sotterfugio? Immagina che le Leggi, personificate, gli rivolgerebbero un amaro rimprovero quale responsabile della loro dissoluzione e, insieme, anche della distruzione dei legami che reggono lo stato (Critone, 48b-51c). Ciò che il Greco antico individua immediatamente come male esecrabile e colpa che non può trovare perdono.
Dunque la legge va rispettata anche quando ti condanna: atteggiamento considerato nobile, nessuno ne dubita, anche agli occhi degli attuali governanti. Tuttavia essi devono ritenerlo ormai desueto, o almeno palesemente inadeguato a risolvere le necessità del popolo italiano e di un’epoca come la nostra, contrassegnata – come usa dirsi – dalla complessità. Servono strategie più raffinate, che sarebbero apparse incomprensibili alla mentalità ancora primitiva degli antichi. Pare perciò opportuno a questi politici cambiare le leggi che regolano i comportamenti e gli stessi processi, sinceramente convinti della specchiata bontà delle proprie azioni, che possono così diventare il nuovo parametro a cui conformare le regole: soprattutto in tema di conduzione dei processi, di snellimento delle procedure, di affari e di bilanci, cose rispetto alle quali il povero Socrate manifestamente era ignorante...
Temo però che quest’ultimo, con la sua fastidiosa insistenza, sarebbe andato più a fondo della questione. In ultima analisi, gli ardenti sostenitori di una “giustizia più giusta per tutti”, che si adoperano in Parlamento per promulgare leggi atte ad evitare tanti imbarazzi al loro leader, sono fermamente convinti di volere il suo bene. Anzi, di questo amore sono pronti a dare ripetute e sonore manifestazioni in ogni pubblica occasione.
Ecco così emersa la questione: evitare i processi è davvero un bene per Berlusconi (così come per chiunque altro)? La domanda certamente non è oziosa, almeno nel nostro paese, dove il non rispondere delle proprie azioni e “farla franca”, quando possibile, è considerato secondo i casi una positiva manifestazione di fortuna o di abilità personale.
L’anacronistico Socrate ha in verità compianto uomini provvisti di simili attitudini. Ritenuti all’esterno “realizzati” e felici, sembra invece che costoro siano le persone interiormente più miserevoli, in quanto deteriorano in modo irreparabile la propria dignità umana. Perciò risolvere in questa maniera i casi personali fa molto più male che bene ai presunti beneficiati, per tacere del danno arrecato all’ethos civile (Gorgia, 466a-472c).
Inoltre chi compie il male, e non si ravvede, perché non riconosce il proprio errore o anela a sottrarsi alle sue conseguenze con ogni mezzo, ha già in questa sua permanenza nell’errore il più severo dei castighi. Il suo è il destino più infelice: l’illusione offerta dall’ignoranza del bene. Com’è stato affermato in un altro contesto, non senza punti di contatto con la sapienza socratica, “cosa serve a un uomo guadagnare il mondo intero, se perde la sua anima”? Volere veramente il bene di qualcuno (come ad esempio un amico, un figlio) non può significare augurargli di eludere la responsabilità delle sue azioni; semmai dovrebbe essere il contrario. Chi – affetto a sua volta dal male – odiasse infatti un nemico, dovrebbe auspicare precisamente questo. Materia di riflessione, credo, anche per i partecipanti ai prossimi, rinnovati, girotondi...