Albrecht Dürer, Navis Stultorum (in S. Brant, Narrenschiff - 1497)

giovedì 28 agosto 2008

Alitalia: l'ennesimo miracolo italiano

Quale imprenditore, trovandosi alle soglie del fallimento, non sognerebbe un colpo di bacchetta magica che facesse pagare ad altri i debiti da lui accumulati, eliminasse il personale in esubero e gli riconsegnasse un'azienda resa più snella e competitiva da alleanze con colossi internazionali?
Per qualcuno, evidentemente, il mondo dei sogni esiste. È il nostro paese, e l'azienda-bidone che verrebbe trasformata in un'avvenente leader del mercato nazionale è Alitalia. Leggendo sui giornali i primi dettagli del piano industriale, ci troviamo di fronte ad un incanto fatato, che segue le promesse elettorali dell'attuale governo. Ma si comincia a capire anche a chi toccherà pagarne i costi.
La parte “cattiva” dell'azienda (coi debiti) viene separata da quella buona, che sarà assegnata ad imprenditori coraggiosi. Grande coraggio, il loro, visto che non pagheranno le azioni allo Stato neppure un centesimo, a differenza dell'offerta di Air France, e che tra qualche tempo saranno liberi di cedere le loro quote al partner straniero, senza l'intervento del quale non si può oggi concludere l'operazione. Tra un po' potremo sapere di chi si tratta. Ma non ci avevano raccontato che bisognava salvare ad ogni costo l'”italianità” della compagnia di bandiera contro le conquiste straniere?
Si salveranno almeno i posti di lavoro, che avevano tanto inquietato i sindacati nelle precedenti ipotesi? Ovviamente no, non si può: i licenziamenti inevitabili sono da due a tre volte più di quelli precedenti, ma ci dicono che occorre rassegnarsi, e che magari il governo potrà riassumere i malcapitati nella pubblica amministrazione, notoriamente a corto di organico.
E come verranno eliminati i debiti? Una volta che azioni e obbligazioni siano divenute carta straccia, spetterà al Tesoro, cioè allo stato, ripianare oltre un miliardo di euro. Oltre ai trecento milioni già erogati come “prestito” ma che a questo punto non rientreranno mai, in barba alle norme europee sugli aiuti di stato.
Questi però sono tutti soldi dei contribuenti. Soldi nostri, gettati al vento senza ottenere in cambio alcun servizio. È vero che in passato ho volato un paio di volte con Alitalia, e forse è una colpa, ma mi sembra eccessivo farmela scontare col costringermi a pagare questo ulteriore balzello.
Magari sarebbe da accogliere il suggerimento di ordine generale che, dalle pagine di “Libero”, lancia il ministro Brunetta: “Se lo stato spreca, fategli causa”. Temo proprio che con Alitalia si stia preparando l'occasione più clamorosa di sperpero che la storia italiana di questi anni potrà ricordare. Non vedo chi potrebbe esserne felice.

giovedì 14 agosto 2008

Patenti di cristianità

Chi certifica l'ortodossia in ambito cristiano? Alcuni risponderebbero che, almeno per il mondo cattolico, tale funzione la esercita il magistero ecclesiastico. Ingenui e sprovveduti: non sanno infatti che i titolari di questo delicato compito sono alcuni qualificati esponenti del centrodestra, quali Gasparri, Giovanardi, Bondi e qualche altro fine teologo del loro livello.
Lo apprende a sue spese la rivista “Famiglia Cristiana”, colpevole di aver espresso posizioni critiche nei confronti dell'operato del governo e perciò, automaticamente, “cattocomunista”. In pratica, una pubblicazione eretica, che si vorrebbe veder bandita dalla “buona stampa” parrocchiale. Criticare in parte il “miracolo” dei primi cento giorni berlusconiani, pur rimarcando il successo del presidente autodefinitosi “spazzino” a Napoli, e però sottolineare la più che probabile impronta propagandistica dei provvedimenti sulla sicurezza, è colpa imperdonabile. I nuovi sanfedisti del PdL si sono trattenuti, nella loro infinita saggezza, dal definirlo peccato mortale, ma hanno inflitto una scomunica de facto al giornalismo non asservito dei sacerdoti di FC (non devono forse praticare le sacrosante virtù dell'obbedienza e del silenzio?) e, trasversalmente, a tutti quegli uomini di chiesa che scelgono di stare dalla parte degli ultimi anziché blandire il potere politico, aspettandosene chissà quali vantaggi.
Bondi li ammonisce: sono intellettuali, lontani dal popolo delle parrocchie che invece brama durezza contro i Rom e soldati nelle strade. Sondaggi alla mano, magari ha pure ragione. Però è strano sentir attribuire alla Chiesa il compito di assecondare le tendenze egoistiche del suo gregge, e non di proporre un'apertura e una solidarietà pur fuori moda, ma forse un poco più vicina allo spirito e alla lettera del Vangelo.
Il direttore di una rivista cattolica non rappresenta certamente la gerarchia né il Vaticano. Ma se egli chiede al governo per cui ha votato di mantenere le promesse sui temi della solidarietà sociale e soprattutto del sostegno alla famiglia (non quella astratta dei proclami, ma quella in carne ed ossa della vita quotidiana) viola forse qualche dogma? Se si permette di criticare una filosofia politica neppur troppo nascosta che erige l'individualismo a valore, che alimenta paure irrazionali e strizza l'occhio alla xenofobia, per non dire delle misure legislative ad personam, dell'ostentazione cafona della ricchezza e del successo, dello svilimento della figura femminile, diviene automaticamente “criptomarxista”? O non tiene piuttosto ad esercitare, secondo la sua vocazione, la libertà del credente che spera in un'umanità rinnovata secondo un ideale di amore universale, e che non si accontenta delle contrapposizioni sterili, dei rifiuti, e chiede alla politica autentici segnali di promozione umana?
I modi e i toni delle critiche, certo, possono sempre essere discussi, e a loro volta criticati. Ma è consentito auspicare che, almeno ogni tanto, chi ha responsabilità di governo replichi con la concretezza dei fatti anziché con patetiche accuse di comunismo, anatemi stizziti e la pretesa di essere giudice della fede altrui?

venerdì 8 agosto 2008

Micioni castrati: citazioni tra passato e presente

“Se la Repubblica italiana è diventata la repubblica della partitocrazia una grande responsabilità l'abbiamo anche noi giornalisti. Anziché ringhiare come cani da guardia, abbiamo fatto le fusa come i micioni castrati accanto al caminetto di chi comanda”. Così scriveva Giampaolo Pansa sul “Corriere della Sera” il 13 maggio del 1993.
Quindici anni dopo può fornire qualche spunto di riflessione una serie di citazioni provenienti da quel mondo remoto, ove ci si poteva illudere che la politica avrebbe subito una trasformazione radicale, e ancor più che il giornalismo italiano avrebbe cambiato volto. Quale migliore occasione di Tangentopoli e della critica radicale al sistema politico di allora per abbandonare l'atteggiamento descritto da Pansa, uscendo dalle pastoie dell'“advocacy journalism” (quello che conosce la verità ancor prima di conoscere i fatti) per tendere, almeno in parte, verso una maggiore imparzialità. Magari per porsi, nei confronti del potere – di ogni potere – come il “cane da guardia” della tradizione giornalistica anglosassone, teso in primis all'interesse del lettore e alla difesa della democrazia. Un puro sogno? Ciascuno può valutarlo considerando il presente ed il recente passato, a partire dal confronto con questa fotografia della situazione di quei primi anni Novanta (quando, se non altro, l'uso della lingua italiana era soggetto ancora a qualche forma di controllo sintattico-grammaticale e di aspirazione alla qualità che oggi sembrano essersi completamente dissolti, soprattutto nei TG, ma anche sulla carta stampata).

«La colpa, l'eterna tentazione, e alla fine la vera corruzione, è l'intimità con il potere, perché significa rinunciare al proprio compito e al proprio dovere... Troppo spesso tutto ciò è stato dimenticato nella convinzione diffusa di far parte di una superclasse che annullava i confini tra i potenti e i giornalisti in un parassitismo reciproco pronto a calpestare gli interessi dei lettori» (Ezio Mauro, La Stampa, 14.3.1994).
«È mancato finora nella mappa cromosomica dei giornalisti italiani quello spirito antagonista che ne dovrebbe fare i controllori dei potenti» (Vittorio Roidi, L'Europeo, 21.5. 1993).
«Troppo spesso ci siamo accontentati di una informazione di Palazzo, appagati dal “tu” accattivante che ci veniva elargito dai potenti» (Claudio Alò, Corriere della Sera, 21.7.1993)
«I giornali non chiedono più le inchieste, hanno capito che le inchieste sono pericolose, che in un modo o nell'altro si lede sempre qualche interesse economico... I grandi giornali appartengono a un pugno di grandi aziende che si aiutano tra loro» (Giorgio Bocca, L'Europeo, 21.5.1993)
«In Italia per oltre quarant'anni non c'è mai stata un'informazione televisiva degna di questo nome. E, purtroppo, non è una esagerazione affermare che i telegiornali italiani sono i peggiori del mondo occidentale industrializzato... non arriviamo a capire come possa essere permesso a delle persone incompetenti di fare questo mestiere... In parole povere, non c'è quasi nessuno che sopravviverebbe un solo giorno in uno dei network americani o in qualunque altra televisione seria» (Wolfgang Achtner, corrispondente della CNN, Micromega, 1/1994).
«Ci si rifugia nell'aneddoto, si cancella la memoria storica; si osservano le vicende con sguardo acritico... Si pubblica qualsiasi cosa, purché sia nuova: senza storicizzarla e senza vagliarla; senza fornire ai lettori gli strumenti per capire. Anche questa, forse, è una mancanza di deontologia» (Marcelle Padovani, corrispondente del Nouvel Observateur, Il Messaggero, 14.3.1994).
«Un cameratismo, e anche peggio, tra politici e giornalisti, tra imprenditori e giornalisti, ha spesso preso il posto di quel distacco e antagonismo che producono un'informazione spassionata» (Roger Cohen, Gannet Center Journal, primavera 1990).
«Mentre nella teoria liberal-borghese l'informazione giornalistica è pensata come soggetto “altro” dal sistema politico/economico e, per molti versi, anche dai privati cittadini che essa pretende di rappresentare, la stessa cosa non avviene nel modello che si è venuto realizzando in Italia, dove esiste una forte compenetrazione tra élite dei media ed élite politiche, o più generalmente élite del potere, tale che spesso finiscono con lo sposare il punto di vista delle aree culturali e politiche alle quali esse sono, in misura diversa, collegate» (Paolo Mancini, novembre 1991)

venerdì 1 agosto 2008

Ironia

Saper riconoscere la propria ignoranza, in un mondo in cui tutti pontificano (compresi, da qualche anno in qua, calciatori ed attricette) è impresa difficile: eppure, come insegna Socrate, è veramente sapiente solo chi sa di non sapere, non chi s'illude di essere già “a posto”, volendo ignorare così la sua stessa ignoranza; oppure chi, come nel caso del politico, la dissimula dietro certezze o furbizie che si possano “vendere” bene per ottenere consenso.
Solo chi sa riconoscere il proprio limite avverte il bisogno di conoscere, mentre chi si crede in possesso del sapere non coglie la necessità e il valore della ricerca, così da non prendersi cura di sé e da rimanere irrimediabilmente lontano dalla verità e della virtù.
Socrate, com'è noto, ritiene che l'ironia rappresenti il mezzo per risvegliare negli altri la consapevolezza della propria ignoranza, stimolando il dubbio e l'inquietudine per impegnarli nella ricerca. Essa è il fondamentale antidoto alla boria e all'arroganza del saccente, del sedicente esperto, del potente di turno.
Come mostrano gli atteggiamenti seriosi e un po' tetri di chi esercita il potere (magari dissimulati sotto mentite spoglie, come quelle di gran barzellettiere), nella sfera pubblica non è molto praticata la capacità di mettersi in discussione.
Quanto giova, infatti, nella sfera politica il mostrarsi aperti, possibilisti, umili? O per convincere ed irretire gli elettori, i sodali (e, con minore difficoltà, i servi) non occorre piuttosto presentarsi come personaggi dalle granitiche certezze, convinti di aver sempre ragione, e ovviamente privi di senso del ridicolo?
L'ironia socratica, smontando questa ipocrisia più o meno consapevole, tende anzitutto a mettere l'uomo in chiaro con se stesso, per portarlo al riconoscimento dei propri limiti e renderlo giusto: politicamente parlando, solidale con gli altri cittadini, fedele all'ideale di giustizia.
Il dubbio e l'inquietudine non accompagnano perciò una condizione di debolezza, ma di franca ammissione che non si possiede la verità una volta per tutte. Essi sono dunque la condizione per poter avviare una ricerca scevra da pregiudizi, uno stimolo prezioso per guardare alle cose in maniera profonda, nonché per avviare un vero dialogo con gli altri. Presuppongono in chi li usa una reale intelligenza, nel senso etimologico, come capacità di “leggere dentro” le cose.
Può diventare un modo di procedere diffuso? Solo in proporzione all'interesse per ciò che Socrate definiva la “cura della propria anima”. Quindi, probabilmente no.
Se la superficialità rassicurante dei luoghi comuni viene meno, manca infatti la materia prima per molti politici, che indirizzano l'opinione generale, la doxa, proprio grazie a questi preziosi alleati (tutti gli zingari rubano, gli statali sono fannulloni, il fantomatico popolo lumbard discende dai celti, destra è sinonimo di ordine, efficienza e responsabilità...). Col supporto dei media compiacenti o poco abituati a verifiche e riscontri fattuali, la politica degli annunci si rivela così la più pagante. L'importante è avere faccia tosta a sufficienza, mostrarsi sicuri di sé, coprirsi da soli di pubbliche lodi e denigrare sistematicamente quanto fatto dagli altri. E, soprattutto, non tollerare in proposito scetticismi.