Albrecht Dürer, Navis Stultorum (in S. Brant, Narrenschiff - 1497)
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venerdì 1 agosto 2008

Ironia

Saper riconoscere la propria ignoranza, in un mondo in cui tutti pontificano (compresi, da qualche anno in qua, calciatori ed attricette) è impresa difficile: eppure, come insegna Socrate, è veramente sapiente solo chi sa di non sapere, non chi s'illude di essere già “a posto”, volendo ignorare così la sua stessa ignoranza; oppure chi, come nel caso del politico, la dissimula dietro certezze o furbizie che si possano “vendere” bene per ottenere consenso.
Solo chi sa riconoscere il proprio limite avverte il bisogno di conoscere, mentre chi si crede in possesso del sapere non coglie la necessità e il valore della ricerca, così da non prendersi cura di sé e da rimanere irrimediabilmente lontano dalla verità e della virtù.
Socrate, com'è noto, ritiene che l'ironia rappresenti il mezzo per risvegliare negli altri la consapevolezza della propria ignoranza, stimolando il dubbio e l'inquietudine per impegnarli nella ricerca. Essa è il fondamentale antidoto alla boria e all'arroganza del saccente, del sedicente esperto, del potente di turno.
Come mostrano gli atteggiamenti seriosi e un po' tetri di chi esercita il potere (magari dissimulati sotto mentite spoglie, come quelle di gran barzellettiere), nella sfera pubblica non è molto praticata la capacità di mettersi in discussione.
Quanto giova, infatti, nella sfera politica il mostrarsi aperti, possibilisti, umili? O per convincere ed irretire gli elettori, i sodali (e, con minore difficoltà, i servi) non occorre piuttosto presentarsi come personaggi dalle granitiche certezze, convinti di aver sempre ragione, e ovviamente privi di senso del ridicolo?
L'ironia socratica, smontando questa ipocrisia più o meno consapevole, tende anzitutto a mettere l'uomo in chiaro con se stesso, per portarlo al riconoscimento dei propri limiti e renderlo giusto: politicamente parlando, solidale con gli altri cittadini, fedele all'ideale di giustizia.
Il dubbio e l'inquietudine non accompagnano perciò una condizione di debolezza, ma di franca ammissione che non si possiede la verità una volta per tutte. Essi sono dunque la condizione per poter avviare una ricerca scevra da pregiudizi, uno stimolo prezioso per guardare alle cose in maniera profonda, nonché per avviare un vero dialogo con gli altri. Presuppongono in chi li usa una reale intelligenza, nel senso etimologico, come capacità di “leggere dentro” le cose.
Può diventare un modo di procedere diffuso? Solo in proporzione all'interesse per ciò che Socrate definiva la “cura della propria anima”. Quindi, probabilmente no.
Se la superficialità rassicurante dei luoghi comuni viene meno, manca infatti la materia prima per molti politici, che indirizzano l'opinione generale, la doxa, proprio grazie a questi preziosi alleati (tutti gli zingari rubano, gli statali sono fannulloni, il fantomatico popolo lumbard discende dai celti, destra è sinonimo di ordine, efficienza e responsabilità...). Col supporto dei media compiacenti o poco abituati a verifiche e riscontri fattuali, la politica degli annunci si rivela così la più pagante. L'importante è avere faccia tosta a sufficienza, mostrarsi sicuri di sé, coprirsi da soli di pubbliche lodi e denigrare sistematicamente quanto fatto dagli altri. E, soprattutto, non tollerare in proposito scetticismi.

martedì 1 luglio 2008

Berlusconi come Socrate v 2.0: punto e daccapo

Già nell’estate del 2002 accoglievo con qualche perplessità la notizia che l’Apologia di Socrate venisse rappresentata in varie città italiane a cura di Marcello Dell’Utri, e fosse stata proposta anche ad un corso di formazione di Forza Italia a Gubbio. In un primo tempo mi era venuto in mente che forse un più opportuno testo classico di riferimento sarebbe stato l’Encomio di Elena di Gorgia. Su una posizione antitetica a quella di Socrate, i sofisti infatti sapevano come trarre d’impaccio, con le loro argomentazioni, anche gli imputati meno difendibili...
Ma presto mi sono riavuto dall’ingenuo stupore, pensando che i semi gettati nell’animo dei convenuti, per giunta in una terra di lupi convertiti, avrebbero prodotto di certo buoni frutti col passare del tempo. Oggi, a distanza di sei anni, e di fronte a norme “blocca processi”, non ne sono più sicuro, anzi mi confermo nell’opinione che – fossimo in un paese normale – questi tentativi scivolerebbero nella farsa, nel disgusto generale. Invece sono serissimamente sostenuti con effetti tragici, più che comici, per chi abbia un minimo senso comune della giustizia. L’esito del voto di aprile (sacro, intangibile, e una volta tanto a prova di brogli) porta alla logica conclusione che questo in Italia non è merce molto diffusa, o è comunque barattato con il primo piatto di lenticchie.
Quello però che appariva più interessante nell’operazione culturale era la manifesta volontà di istituire un paragone tra la figura del filosofo ateniese, primo grande “perseguitato politico” della storia, e gli imputati nei noti processi in corso (forse ancora per poco). Tanto più che lo stesso Dell’Utri – nel frattempo condannato – dichiarava di stare “bevendo la sua cicuta goccia a goccia”.
Un parallelismo toccante, non c’è dubbio, che ieri come oggi fa nascere istintivamente il desiderio di difendere i “buoni” dalle prepotenze dei “cattivi” magistrati. Poiché di animi generosi in Parlamento se ne trovano in quantità (ivi portati da una legge giusta e santa), ecco che si spiega la fioritura di iniziative legislative in soccorso dei perseguitati nello scorso mandato del centrodestra, che non si può dubitare destinata a ripetresi al presente. Ma, contrariamente alle sospettose opinioni di un’opposizione per principio menzognera, si deve notare che questi raffinati intellettuali, sia pure al servizio del Principe, vogliono conformarsi allo spirito socratico. Lo fanno, ovviamente, a modo loro.
Cosa fa, infatti, il filosofo, di fronte alla possibilità di sottrarsi alla condanna con qualche sotterfugio? Immagina che le Leggi, personificate, gli rivolgerebbero un amaro rimprovero quale responsabile della loro dissoluzione e, insieme, anche della distruzione dei legami che reggono lo stato (Critone, 48b-51c). Ciò che il Greco antico individua immediatamente come male esecrabile e colpa che non può trovare perdono.
Dunque la legge va rispettata anche quando ti condanna: atteggiamento considerato nobile, nessuno ne dubita, anche agli occhi degli attuali governanti. Tuttavia essi devono ritenerlo ormai desueto, o almeno palesemente inadeguato a risolvere le necessità del popolo italiano e di un’epoca come la nostra, contrassegnata – come usa dirsi – dalla complessità. Servono strategie più raffinate, che sarebbero apparse incomprensibili alla mentalità ancora primitiva degli antichi. Pare perciò opportuno a questi politici cambiare le leggi che regolano i comportamenti e gli stessi processi, sinceramente convinti della specchiata bontà delle proprie azioni, che possono così diventare il nuovo parametro a cui conformare le regole: soprattutto in tema di conduzione dei processi, di snellimento delle procedure, di affari e di bilanci, cose rispetto alle quali il povero Socrate manifestamente era ignorante...
Temo però che quest’ultimo, con la sua fastidiosa insistenza, sarebbe andato più a fondo della questione. In ultima analisi, gli ardenti sostenitori di una “giustizia più giusta per tutti”, che si adoperano in Parlamento per promulgare leggi atte ad evitare tanti imbarazzi al loro leader, sono fermamente convinti di volere il suo bene. Anzi, di questo amore sono pronti a dare ripetute e sonore manifestazioni in ogni pubblica occasione.
Ecco così emersa la questione: evitare i processi è davvero un bene per Berlusconi (così come per chiunque altro)? La domanda certamente non è oziosa, almeno nel nostro paese, dove il non rispondere delle proprie azioni e “farla franca”, quando possibile, è considerato secondo i casi una positiva manifestazione di fortuna o di abilità personale.
L’anacronistico Socrate ha in verità compianto uomini provvisti di simili attitudini. Ritenuti all’esterno “realizzati” e felici, sembra invece che costoro siano le persone interiormente più miserevoli, in quanto deteriorano in modo irreparabile la propria dignità umana. Perciò risolvere in questa maniera i casi personali fa molto più male che bene ai presunti beneficiati, per tacere del danno arrecato all’ethos civile (Gorgia, 466a-472c).
Inoltre chi compie il male, e non si ravvede, perché non riconosce il proprio errore o anela a sottrarsi alle sue conseguenze con ogni mezzo, ha già in questa sua permanenza nell’errore il più severo dei castighi. Il suo è il destino più infelice: l’illusione offerta dall’ignoranza del bene. Com’è stato affermato in un altro contesto, non senza punti di contatto con la sapienza socratica, “cosa serve a un uomo guadagnare il mondo intero, se perde la sua anima”? Volere veramente il bene di qualcuno (come ad esempio un amico, un figlio) non può significare augurargli di eludere la responsabilità delle sue azioni; semmai dovrebbe essere il contrario. Chi – affetto a sua volta dal male – odiasse infatti un nemico, dovrebbe auspicare precisamente questo. Materia di riflessione, credo, anche per i partecipanti ai prossimi, rinnovati, girotondi...