Albrecht Dürer, Navis Stultorum (in S. Brant, Narrenschiff - 1497)

martedì 29 luglio 2008

Neolingua

Non nuovo ad acrobazie verbali, in questi giorni Berlusconi sfodera dal cilindro la dichiarazione che la sua è una “vera politica di sinistra”.
Questo avviene in contemporanea ad una manovra economica tanto popolare da contenere un emendamento che mira a introdurre la precarizzazione a vita di varie categorie di lavoratori e una norma che abolisce le pensioni minime per chi non abbia versato contributi per almeno 10 anni: correndo precipitosamente ai ripari, ci viene detto che riguarderà solo gli extracomunitari, ma intanto non è stata scritta così.
Si vara peraltro una Robin Hood Tax che inciderà sensibilmente su azionisti e consumatori (petrolieri e banchieri hanno una lunga tradizione nello scaricare verso il basso i loro aggravi, e solo le anime belle credono diversamente) per 5 miliardi di euro, a fronte dei quali si dispone un'elemosina di ben (!) 200 milioni per gli anziani indigenti con la Social Card.
Si grida che il nemico è alle porte istituendo l'ennesima “emergenza clandestini” generale, considerata dalla gran parte degli osservatori e dalla Chiesa come semplice fumo negli occhi. Si aboliscono sistemi di controllo dell'evasione fiscale introdotti da pochi mesi, terminata cioè la fase di assestamento e di iniziale disagio. Si prepara lo straordinario “pacco” Alitalia, con più licenziamenti, minori investimenti, minori dimensioni, minore competitività e ampie zone oscure rispetto alla dileggiata proposta di Air France (si legga Gianni Dragoni sul Sole-24 Ore del 25 luglio, p. 24).
Tutto questo, apprendiamo, è una politica “di sinistra”.
Dato che stravolgimenti lessicali di questa portata, come ci insegna Orwell, sono caratteristici delle dittature totalitarie – niente, ne siamo certi, è più lontano dallo spirito dell'attuale condottiero di un'Italia felicemente rinnovata – sarebbe bene che egli si attenesse a distinzioni più convenzionali e anche più precise. Non si vergogni, non abbia paura di affermare che segue politiche di destra: dopotutto, più o meno consapevolmente, gli elettori lo hanno votato per questo.
O forse voleva alludere al fatto che questo governo muove i suoi primi passi aumentando la pressione fiscale (cosa ammessa persino dallo schieratissimo Giornale). Dunque più tasse per tutti, pardòn, per alcuni, quella non esigua quantità di persone che non ha modo di evadere o di rivalersi su altri. In questo, diamogliene atto, il traguardo della politica di sinistra da lui tanto ambìto, il buon Berlusconi lo può considerare raggiunto.

sabato 26 luglio 2008

Il più grande insegnante del Nord

Alla nutrita collezione del folklore bossiano, che ci ha abituato a tante raffinatezze, puntualmente chiosate come trovate di genialità politica da commentatori sin troppo ben disposti, vediamo aggiungersi le sparate sull'inno di Mameli e sugli insegnanti meridionali. Entrambe, in un paese normale, si commenterebbero da sole e chiuderebbero carriere nel discredito generale; da noi, rafforzano l'immagine del personaggio e la convinzione diffusa che con l'eloquio da bar dell'“uomo forte” di turno... si portano a soluzione i problemi della collettività.
Certo che imputare l'ignoranza ben distribuita in tutte le fasce d'età all'azione dei professori provenienti dal Sud (rei ovviamente anche di sottrarre posti di lavoro, di non insegnare le tradizioni locali e di non divulgare le benemerite tesi federaliste) è una formidabile sfida al buon senso e alla realtà dei fatti. Tanto più che, sugli scarsi livelli di acculturazione, movimenti come quello leghista costruiscono le loro fortune, grazie anche alle traballanti mitologie di cui imbottiscono crani non particolarmente muniti.
Ma la notizia assume ben altro rilievo se la si mette in relazione con la denuncia delle crudeli persecuzioni subite proprio da uno studente padano, bocciato all'esame di stato per la colpa di aver portato una tesi su Carlo Cattaneo. Come non provare un moto di sdegno pensando che l'odio razziale di cui i lumbard sono notoriamente vittime possa toccare simili vertici? Poi, per fortuna, veniamo ricondotti ad una dimensione meno surreale dalla constatazione che il diretto interessato altri non è che il figlio del senatùr, il giovane Renzo, che nonostante il collegio privato e la commissione nella quale i docenti meridionali latitavano, ha deluso l'augusto quanto protettivo genitore non conseguendo la promozione.
Meglio dunque sfogare il malumore politicamente, ossia – data una certa concezione della politica – cercando un capro espiatorio da coprire di contumelie: gli insegnanti del sud, gente ritenuta con tutta evidenza indegna di accostare i teneri rampolli della terra padana. come probabilmente tutti coloro che non hanno legami di sangue con Carlo Cattaneo (lui sì, vittima incolpevole, ma della strumentalizzazione leghista).
Ci troviamo di fronte alla difesa, dunque, di un nobile principio, dei puri valori della conoscenza? O non, piuttosto, all'ennesima conferma che a forza di promuovere particolarismi e localismi è facile debordare, pensare in termini rozzamente individualistici, deformare la realtà a proprio uso e consumo, perseguire il proprio tornaconto (di singolo, di gruppo politico, di “etnia”)?
Se si tiene conto che la radicale Bernardini è appena stata aggredita verbalmente da parlamentari leghisti nel momento in cui ha proposto l'abolizione dei privilegi sui trasporti (treni, aereo, autostrade) di cui godono gli ex parlamentari, nonché di esigere la rendicontazione di quanto viene speso per i portaborse, il quadro sembra completo.
La sensazione, non certo da ora, ma sin dai primi tempi dell'attività parlamentare (leggi l'esemplare cammino della Pivetti) è che molti “difensori del popolo” nordico siano bravissimi nell'additare sprechi e favoritismi di “Roma ladrona”, salvo poi, una volta raggiunte posizioni di potere, essere in prima fila nel voler passare all'incasso, nel pensare a come costruirsi comode carriere all'ombra del padrone del “movimento”.
L'esempio, infatti, conta. Tutti ricordiamo come Bossi avesse tentato, a suo tempo, di piazzare al Parlamento Europeo come portaborse assolutamente sprovvisti di qualifiche il fratello e un altro figlio; per giunta, più volte egli ha pubblicamente indicato in questo o quel figliuolo un “erede” destinato a succedergli (preparando di fatto il popolo leghista a vederli in futuro occupare un qualche posticino “per meriti politici”); da ultimo, cerca ora di consolare il figlio bocciato all'esame presentandolo come un caso di persecuzione razziale sui generis.
Sempre mantenendo la serenità e, perché no, lo stile unico che lo caratterizza (stile governativo, ironizzava Scalfaro). Tanto i voti li prende comunque, qualunque cosa dica: è autentico carisma. Per immunizzarsi, ritengo sia sufficiente richiamare le parole del rettore del collegio (peraltro pressoché unico meridionale della commissione esaminatrice): “Il padre, dicendo le cose che ha detto, prima di tutto non fa il bene del ragazzo”. Forse non fa neppure il bene di tutti quelli che lo prendono sul serio.

lunedì 21 luglio 2008

Informazione dall'estero: al solito, che pena...

Lo osservava un rapporto di qualche mese fa, realizzato da “Medici senza frontiere” in collaborazione con l'Osservatorio di Pavia, sull'attenzione alle aree di crisi nel mondo. Queste situazioni drammatiche, che per la gran parte dell'informazione estera “fanno notizia” e vengono quindi coperte in maniera variamente approfondita, nell'informazione italiana, soprattutto televisiva, sono quasi completamente trascurati e solo in qualche caso raggiungono i margini dei notiziari, generalmente in orari impossibili per il grande pubblico.
Non ci si dovrebbe meravigliare troppo, dato che in Italia si chiamano “telegiornali” anche contenitori di pettegolezzi, intrattenimenti e “lanci” pubblicitari mescolati con qualche fatto di cronaca, quasi sempre trattato con una professionalità scadente o assente (interviste sul caldo, persecuzione dei parenti delle vittime con domande ripugnanti su come si sentano o sul perdono da concedere, fino alle interviste con citofoni silenti o calciatori monosillabanti). Non casualmente, l'informazione politica perde essa pure qualsiasi tratto di obiettività, e diventa faziosa, censoria, parziale, fino a perdersi nell'adorazione smaccata del padrino politico (il fatto che in ampia misura esso coincida con il padrone-proprietario è un'altra peculiarità tutta italiana cui nessuno ha voluto porre argine).
Quando infine si è proprio costretti ad affrontare tematiche internazionali, si finisce il più delle volte per assistere a scalcinate riproposizioni dei più vieti stereotipi, quali la semplificazione tra buoni e cattivi, l'estremizzazione delle contrapposizioni, il ripiego sul gossip (esemplari in tal senso i servizi provenienti dal Regno Unito), l'esaltazione di qualche spunto patriottico-provinciale (vi è un raduno, in acque francesi, di velieri storici provenienti da tutto il mondo? Si parla solo ed esclusivamente dell'Amerigo Vespucci!).
Limitandoci solo a questa mattina, è stata esemplare la pietosa condotta del TG2, che trattava la vicenda della bimba malmenata e ridotta in fin di vita a Roma dal padre squilibrato, di nazionalità francese... parlando da Parigi, di fronte ad un'edicola, lamentando il fatto che i giornali d'oltralpe non si sognano di dare alla notizia lo stesso, ossessivo risalto che le concedono tutti i TG e quotidiani nazionali! Un vertice di professionalità (alla rovescia, ovviamente: andrebbe piuttosto definito un abisso), che naturalmente brucia spazi preziosi di informazione a vantaggio del solito moralismo d'accatto.
Squallida ed inconcludente è poi la competizione tra TG, quando si verificano crisi di grandi proporzioni e le varie testate provvedono alla spedizione degli inviati, tesi a fornire “ultime ore” tutte uguali, da apprezzare magari per l'anticipo di pochi minuti rispetto alle altre, anziché gli elementi per comprendere quanto sta avvenendo negli altri paesi. Tutti nello stesso luogo, cancellando di fatto il resto del mondo che viene accantonato per rispondere a quelle che si credono “esigenze del mercato”.
Conclusione: tra i cittadini europei, gli Italiani hanno una informazione tra le più limitate, scadenti e provinciali. Ma se ne accorgono?

lunedì 14 luglio 2008

Bronislaw Geremek ci ha lasciati

Muore improvvisamente un uomo che ha rappresentato molto per il suo paese e per l'Europa intera. È una perdita autentica per il riformismo nel nostro continente. A me è sembrato sempre un modello di stile e coerenza che può insegnare molto, al di là delle specifiche posizioni, a chi si dedica all'attività politica. Purtroppo, per tanti, essere un intellettuale - seriamente, guardando oltre le convenienze, senza chinare il capo di fronte al potere - è un serio difetto...
Riprendo una delle sintetiche biografie messe in rete in queste ore, e un rimando ad un lucido saggio sulla centralità dell'educazione nel processo europeo: http://universitas.fondazionerui.it/portal/page/categoryItem?contentId=47286

Professore, intellettuale, storico, politico, uomo. Bronislaw Geremek lascia dietro di sé un vuoto profondo nella coscienza polacca e europea. Stimato sia a destra che a sinistra. Conosciuto a livello internazionale per l'intelligenza e l'acutezza delle sue idee, Geremek ha segnato la storia della Polonia per oltre un quarto di secolo.
Uomo mite, raffinato nei modi, è stato uno dei massimi esponenti dell'intellighenzia polacca durante il regime comunista. Protagonista della transazione democratica, partecipando alla Tavola rotonda del 1989, è stato deputato presso il parlamento di Varsavia per oltre dieci anni, ricoprendo tra il 1997 e il 2000 la carica di ministro degli Esteri. Fu lui nel 1999 a firmare lo storico ingresso della Polonia nella Nato.
Eurodeputato dal 2004 nel gruppo 'Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l'Europa' è sempre stato un fervente sostenitore dei principi fondanti l'Unione europea. Titolare di cattedra presso il prestigioso College d'Europe, ai suoi studenti ripeteva sempre che "l'Europa doveva rappresentare una seconda patria. La patria di tutte le famiglie storiche, culturali e sociali del vecchio continente".
Tra gli intellettuali più attivi durante il regime comunista, Geremek è stato fin dal 1968 - dalla repressione violenta della Primavera di Praga - un fermo oppositore della dittatura fino a sposare nel 1980 le proteste degli operai dei cantieri navali di Danzica. Incarcerato per oltre un anno durante il periodo della legge marziale in Polonia, dal 1982 è divenuto stretto collaboratore e consigliere del leader di Solidarnosc, Lech Walesa.
Le cronache del tempo riportano spesso il famoso aneddoto del primo incontro tra Geremek e Walesa nei cantieri di Danzica. Un incontro che ha segnato la storia futura polacca e che rappresenta la riunione tra la classe operaia e il mondo degli intellettuali per il bene e la lotta comune. "Stavo parlando (a Walesa, ndr) da non più di dieci minuti sui documenti che noi intellettuali potevamo scrivere per mettere pressione al regime, spiegando strategie e teorie contrastanti. Finisco la frase e Walesa era sparito! Dopo cinque minuti tornò con delle carte dicendomi: il presidio dei promotori dello sciopero ci ha affidato l'incarico di formare due gruppi di esperti". Pragmatismo unito alla teoria. Un legame, una sorta di fascino personale che è rimasto negli anni tra Geremek e Walesa, anche quando tanti anni dopo le loro strade politiche si sono divise.
Insieme ad Adam Michnik, Tadeusz Mazowiecki e Lech Walesa, Bronislaw Geremek fu uno dei principali protagonisti della Tavola rotonda nel 1989 - negoziati tra gli esponenti del regime e quelli dell'opposizione e di Solidarnosc - che traghettò pacificamente la Polonia alla democrazia.
Politico di lungo corso e libero pensatore non ha mai nascosto il suo dissenso nei confronti dei fratelli Kaczynski, Jaroslaw l'ex-premier e Lech l'attuale presidente. Destò scalpore e suscitò non poche polemiche la decisione nel 2007 di non sottoporsi ai procedimenti di "Lustracja", che intimavano a tutti gli uomini politici e intellettuali di dichiarare di non aver mai collaborato con il regime comunista, lanciando dai banchi dell'Europarlamento un fragoroso attacco politico contro l'allora governo social-conservatore di Jaroslaw Kaczynski, primo fautore dell'inasprimento dei regolamenti della Lustracja.

sabato 12 luglio 2008

Nothing Is Easy

Ricoprire l'avversario-demonio di insulti, dare una valvola di sfogo alla propria impotenza, far parlare di sé sui media; e insieme denunciare un pericolo reale per la democrazia, opporsi a uno sconcio istituzionale e ad un ulteriore svuotamento delle prerogative parlamentari. Soprattutto dare voce ad un malessere profondo, che non è però quello della maggioranza dei concittadini, in forme scomposte, rispondendo all'arroganza con l'arroganza, alla violenza verbale (larvata, subdola, pervasiva) con la violenza verbale (esplosiva, liberatoria ma assolutamente sterile). Il trionfo dell'antipolitica, che è sempre, indirettamente, un successo per la cattiva politica.
Questo mi sembra sia essere il senso della manifestazione romana dell'8 luglio: il risultato prodotto, al di là delle intenzioni, è semicatastrofico. Politicamente non raggiunge neppure la parità con l'avversario, per l'ulteriore discredito che porta alla causa dell'antiberlusconismo, offrendo forti appigli e giustificazioni alla tendenza di segno opposto. Che non è, lo sappiamo bene, sorretta dalla forza della ragione, dal senso dello stato, dal primato del bene comune, ma da un più banale e primitivo ossequio al capo, consacrato dal popolo, e perciò legittimato a fare ciò che vuole. Non a caso, per effetto delle decisioni prese a colpi di maggioranza, lo si è messo al riparo da ogni imbarazzo giudiziario, come un sovrano assoluto.Bisognava tacere? Al contrario. Ma se non si presta attenzione ai modi e se non si ha veramente a cuore il convincimento di chi ha un'idea diversa, ci si riduce al semplice gettargli in faccia il nostro disprezzo. Si ribadisce la propria debolezza e, insieme, si consente al benpensante di turno di rifugiarsi nelle certezze preconfezionate (il leader buono aggredito da magistrati e piazze comunisti, l'attitudine puramente distruttiva della sinistra, e via dicendo).
Con scontate capacità di previsione, il giorno prima Ernesto Galli della Loggia condannava questo genere di moralismo come “il modo classico in cui la sinistra declina la tendenza all'antipolitica che da sempre, e oggi piu che mai, alligna anche nelle sue file. Laddove la destra è abituata a declinare l'antipolitica nelle forme del disincanto qualunquistico spinto fino al cinismo, la sinistra, invece, l'incanala in quelle dell'eticismo condotto al limite dell'arroganza di tipo razzista”. Di qui il trittico dogmatico consistente nella convinzione di avere in esclusiva il copyright del bene, di dover essere tutti uniti contro il male (assoluto), e di alimentare la purezza con la durezza.Una riflessione in parte condivisibile, ma che rischia, nei toni di molti commentatori, di assolvere frettolosamente molte delle procedure comuni alla pratica politica, sino al piccolo e medio cabotaggio dei compromessi più ignobili. Infatti, nel nostro paese, si dice spesso “moralismo” inglobando in questo concetto anche quello di “moralità”. Raccomandazioni, servilismi, distorsione sistematica dei fatti nell'informazione, accesso a posti attraverso ricatti e/o concessione di favori (sfera sessuale inclusa), evasioni degli obblighi fiscali e disaffezione civica hanno spesso trovato pubblici difensori, beninteso in toni elusivi, tramite ragionamenti indiretti, lamentando in sostanza che gli esseri umani non possono essere santi, che così va da sempre il mondo, eccetera. Una sagra dell'ipocrisia di cui non importa qui elencare i campioni, visto che trovano sempre nuovi emuli.
Si può perciò condannare il moralismo e dichiararne i guasti, ma va fatta estrema attenzione alla facile autoassoluzione che i “furbi” sono prontissimi a costruirsi. Esattamente come l'antipolitica è pericolosa ed ingiusta nel rendere superflua la fatica di pensare, di misurare, di distinguere, e nel condannare chi invece intenda ragionare e dialogare con tutti sul merito dei problemi, è però una faciloneria non innocente anche quella di chi prescinde, sempre e comunque, da considerazioni etiche, da un ideale di giustizia, a volte gettando a mare anche il puro buon senso.
Credo che le passate vicende di un intelligentone politico come D'Alema, nel suo storico confronto con Berlusconi, ne rappresentino la più efficace delle illustrazioni. Se qualcuno non ne fosse convinto mi illustri, per favore, gli straordinari successi ottenuti nel tempo da questa Realpolitik all'amatriciana; quali benefici abbia portato al centrosinistra; quale sensibilità ed efficacia abbia dimostrato in tema di conflitto di interessi e di antitrust mediatico; quale incremento dei consensi nel paese.
Moralità, intelligenza politica e capacità di dialogo onesto sono un connubio difficile da realizzare, è vero. Una strada stretta, che richiede probabilmente più impegno di quanto la classe dirigente che ci ritroviamo sia disposta a concedere. I furbi, classicamente, preferiscono le scorciatoie di ogni genere e il lavoro nell'ombra. Con gli effetti che tutti vediamo.

martedì 8 luglio 2008

Campane di vetro

Esami di stato 2008. Assistiamo ad un'altra geniale trovata (forse partorita dalla stessa mente di funzionario che ha formulato le prove di Italiano): i voti finali non sono più resi pubblici. Tutti i candidati possono leggere unicamente se l'esito è stato “positivo” o meno. Per conoscere il dettaglio più importante, il punteggio, si devono recare alla segreteria della scuola e presentare regolare domanda. Inutili code e perdite di tempo, ore-lavoro e carta sprecati, un alone di riservatezza che confina con l'omertà: e tutto questo in nome di cosa? Di un paradossale senso della privacy? Della tutela di una psiche fragilissima che non sopporterebbe il confronto con i voti dei compagni di classe? A parte che, in tal modo, sui tabelloni si dà ancora maggiore risalto all'esito negativo rispetto alla pubblicazione del punteggio, stiamo rapidamente abituandoci ad un deficit di trasparenza nelle comunicazioni degli esiti che rischia di innescare effetti controproducenti.
Come se il confronto avesse una funzione depressiva, anziché di stimolo. Come se il merito fosse di per sé un elemento da mantenere riservato, per non nuocere all'autostima altrui. Come se i cittadini, a cominciare dall'età scolare, andassero assuefatti all'idea di non dover rendere conto pubblicamente di quanto avviene nei contesti pubblici.
O, magari, per convalidare l'impressione che un arbitrio nascosto, o una classicissima raccomandazione, siano ben più efficaci, nel sistema italiano, rispetto alle capacità effettive. In effetti, nel mondo anglosassone, così attento al tema del rispetto della sfera privata, simili parossismi sono del tutto sconosciuti. Si dà per scontato che la sfera pubblica sia trasparente in ogni suo aspetto. Per non dire del ruolo investigativo della stampa, che con tutti i suoi limiti è a distanze siderali da quella italiana, e non si limita certo allo stillicidio delle intercettazioni telefoniche, cioè a guardare dal buco della serratura.
Da noi accade l'inverso. A quando, dunque, il mistero anche sull'esito dei concorsi pubblici, così da riempire ben bene di fumo la campana di vetro?

giovedì 3 luglio 2008

Ipocrisia

Un mostriciattolo capace di assumere molti volti. Sicuramente a suo agio in politica, dove lo si incontra anche troppo spesso. Questi giorni ce ne mostrano la forma più sguaiata, nel più classico gioco delle parti.
Se il presidente del consiglio raccomanda attricette, non svolge certo un'azione meritoria, agli occhi della zia suora come a quelli degli italiani.
Dalla vicenda, priva di rilevanza penale, emerge però uno squallore ben noto, quasi un'ovvietà nel paese delle raccomandazioni – e perciò, lo ricordiamo, della mortificazione del merito, dello scadimento generale della qualità, della corruzione diffusa.

Ma il problema, nella grande maggioranza degli interventi, sembra essere tutt'altro: che si osi rendere pubblico e denunciare il fatto. Magari nei toni rozzi di un Di Pietro (peraltro azzimato gentleman se confrontato alla media delle sparate borghezian-bossiane, ma lasciamo stare). Apriti cielo! Si scatena una canea di difensori oltre misura, che non soltanto rimproverano la volgarità degli epiteti, ma si dedicano alacremente alla creazione di una cortina fumogena ad hoc. Soprattutto si sentono in dovere di sparare sul PD, che non si dissocia abbastanza dal piccolo alleato e quindi ne sarebbe succube, precipitando verso un dissennato estremismo che turba il dialogo.

Spudorati. Il dialogo non è possibile perché non lo vogliono e non lo cercano. Altro che confronto: conoscono un solo atteggiamento, la sottomissione, e neppure si accorgono di quanto siano ridicoli nel pretenderlo da un'opposizione che vorrebbero completamente supina.

Senza vergogna. Tanto da indurre a pensare che la disponibilità ad entrare nelle grazie del padrone superi abbondantemente quella delle signorine raccomandate.

Parlare d'altro. Questa la priorità delle priorità. Per non occuparsi dello squallore di questo ceto politico al potere, dell'inefficienza e dei fallimenti passati e prossimi venturi: (prepariamoci, ad esempio, a veder ancora attingere abbondantemente al portafoglio dei cittadini per mantenere il carrozzone-Alitalia). Con la maschera di una politica tutta fatta di annunci, conflitti di interessi e poco altro.

Fino a quando?

mercoledì 2 luglio 2008

Dialogo in politica? Magari, se appena si fosse capaci di ascolto (e onesti)

“Quattro occhi vedono meglio di due”: così recita un noto proverbio. Ma questo principio di saggezza popolare non sembra davvero molto praticato nel confronto politico attuale, dove sembra accadere di tutto, tranne che l’instaurarsi di un dialogo costruttivo tra posizioni diverse.
È certamente legittimo che ciascuno ritenga di avere le migliori soluzioni ai problemi della “cosa pubblica”, e ancor più che abbia il diritto di metterle in pratica quando riceve il mandato popolare: da qui a pensare di avere sempre e comunque ragione, però, ce ne corre. Soprattutto perché occorrerebbe avere sempre come faro l’interesse generale, in maniera trasparente e non viziato da interessi di bottega
Ascoltare le opinioni altrui è segno di rispetto e di prudenza, e insieme rappresenta un aiuto importante per sottoporre a verifica, e magari migliorare, i propri progetti. Mentre la rinuncia all’ascolto si manifesta sempre più spesso nell’indifferenza e nel fastidio per le osservazioni e le proposte che provengono “dall’altra parte”, che si tratti di una maggioranza sorda ad ogni emendamento dell’opposizione, oppure di un’opposizione arroccata nel rifiuto preconcetto delle altrui proposte. Pessima abitudine, ormai diffusa non solo tra gli schieramenti politici avversi, dato che conosciamo bene non solamente carismatici “uomini soli al comando”, ma pure semplici sindaci che non riescono proprio ad ascoltare le indicazioni delle opposizioni, e anche verso i sostenitori ostentano a più riprese sordità. L’unico parametro riconosciuto sembra essere la sottomissione. O così, o sei fuori.
A chi giova tutto questo? In realtà a nessuno. Quel che di certo si ottiene è il progressivo deteriorarsi dei rapporti di convivenza civile, assieme alla perdita della capacità di mediazione, che non consiste necessariamente in compromessi scialbi e confusi. Nulla di grave, per chi coltiva un atteggiamento narcisistico e decisionista: costui ama sentire soltanto sé stesso, è per principio chiuso al riconoscimento dell’altro, e lo accetta solo come semplice spettatore. Ha invece di che preoccuparsi chi vede così compromessa l’essenza del gioco democratico, che è molto più un “ragionare insieme attorno a un tavolo” che non un “chi vince piglia tutto”: alla fine, che vantaggio può venire dal lacerare una comunità, anziché tentare di raccoglierla intorno a valori ampiamente condivisi? Non l’arrogante, bensì solo chi è veramente forte, non teme di mettersi in gioco in un dialogo autentico: saldo nei propri principi e insieme disposto a migliorarsi, egli considera le altre persone portatrici di ragioni che non devono essere sottovalutate, ma – appunto – valutate per quello che sono. Forse, oggi, è proprio questa forza che manca, non solo nei rapporti tra maggioranze e opposizioni, ma anche nelle dinamiche interne ai partiti.

martedì 1 luglio 2008

Berlusconi come Socrate v 2.0: punto e daccapo

Già nell’estate del 2002 accoglievo con qualche perplessità la notizia che l’Apologia di Socrate venisse rappresentata in varie città italiane a cura di Marcello Dell’Utri, e fosse stata proposta anche ad un corso di formazione di Forza Italia a Gubbio. In un primo tempo mi era venuto in mente che forse un più opportuno testo classico di riferimento sarebbe stato l’Encomio di Elena di Gorgia. Su una posizione antitetica a quella di Socrate, i sofisti infatti sapevano come trarre d’impaccio, con le loro argomentazioni, anche gli imputati meno difendibili...
Ma presto mi sono riavuto dall’ingenuo stupore, pensando che i semi gettati nell’animo dei convenuti, per giunta in una terra di lupi convertiti, avrebbero prodotto di certo buoni frutti col passare del tempo. Oggi, a distanza di sei anni, e di fronte a norme “blocca processi”, non ne sono più sicuro, anzi mi confermo nell’opinione che – fossimo in un paese normale – questi tentativi scivolerebbero nella farsa, nel disgusto generale. Invece sono serissimamente sostenuti con effetti tragici, più che comici, per chi abbia un minimo senso comune della giustizia. L’esito del voto di aprile (sacro, intangibile, e una volta tanto a prova di brogli) porta alla logica conclusione che questo in Italia non è merce molto diffusa, o è comunque barattato con il primo piatto di lenticchie.
Quello però che appariva più interessante nell’operazione culturale era la manifesta volontà di istituire un paragone tra la figura del filosofo ateniese, primo grande “perseguitato politico” della storia, e gli imputati nei noti processi in corso (forse ancora per poco). Tanto più che lo stesso Dell’Utri – nel frattempo condannato – dichiarava di stare “bevendo la sua cicuta goccia a goccia”.
Un parallelismo toccante, non c’è dubbio, che ieri come oggi fa nascere istintivamente il desiderio di difendere i “buoni” dalle prepotenze dei “cattivi” magistrati. Poiché di animi generosi in Parlamento se ne trovano in quantità (ivi portati da una legge giusta e santa), ecco che si spiega la fioritura di iniziative legislative in soccorso dei perseguitati nello scorso mandato del centrodestra, che non si può dubitare destinata a ripetresi al presente. Ma, contrariamente alle sospettose opinioni di un’opposizione per principio menzognera, si deve notare che questi raffinati intellettuali, sia pure al servizio del Principe, vogliono conformarsi allo spirito socratico. Lo fanno, ovviamente, a modo loro.
Cosa fa, infatti, il filosofo, di fronte alla possibilità di sottrarsi alla condanna con qualche sotterfugio? Immagina che le Leggi, personificate, gli rivolgerebbero un amaro rimprovero quale responsabile della loro dissoluzione e, insieme, anche della distruzione dei legami che reggono lo stato (Critone, 48b-51c). Ciò che il Greco antico individua immediatamente come male esecrabile e colpa che non può trovare perdono.
Dunque la legge va rispettata anche quando ti condanna: atteggiamento considerato nobile, nessuno ne dubita, anche agli occhi degli attuali governanti. Tuttavia essi devono ritenerlo ormai desueto, o almeno palesemente inadeguato a risolvere le necessità del popolo italiano e di un’epoca come la nostra, contrassegnata – come usa dirsi – dalla complessità. Servono strategie più raffinate, che sarebbero apparse incomprensibili alla mentalità ancora primitiva degli antichi. Pare perciò opportuno a questi politici cambiare le leggi che regolano i comportamenti e gli stessi processi, sinceramente convinti della specchiata bontà delle proprie azioni, che possono così diventare il nuovo parametro a cui conformare le regole: soprattutto in tema di conduzione dei processi, di snellimento delle procedure, di affari e di bilanci, cose rispetto alle quali il povero Socrate manifestamente era ignorante...
Temo però che quest’ultimo, con la sua fastidiosa insistenza, sarebbe andato più a fondo della questione. In ultima analisi, gli ardenti sostenitori di una “giustizia più giusta per tutti”, che si adoperano in Parlamento per promulgare leggi atte ad evitare tanti imbarazzi al loro leader, sono fermamente convinti di volere il suo bene. Anzi, di questo amore sono pronti a dare ripetute e sonore manifestazioni in ogni pubblica occasione.
Ecco così emersa la questione: evitare i processi è davvero un bene per Berlusconi (così come per chiunque altro)? La domanda certamente non è oziosa, almeno nel nostro paese, dove il non rispondere delle proprie azioni e “farla franca”, quando possibile, è considerato secondo i casi una positiva manifestazione di fortuna o di abilità personale.
L’anacronistico Socrate ha in verità compianto uomini provvisti di simili attitudini. Ritenuti all’esterno “realizzati” e felici, sembra invece che costoro siano le persone interiormente più miserevoli, in quanto deteriorano in modo irreparabile la propria dignità umana. Perciò risolvere in questa maniera i casi personali fa molto più male che bene ai presunti beneficiati, per tacere del danno arrecato all’ethos civile (Gorgia, 466a-472c).
Inoltre chi compie il male, e non si ravvede, perché non riconosce il proprio errore o anela a sottrarsi alle sue conseguenze con ogni mezzo, ha già in questa sua permanenza nell’errore il più severo dei castighi. Il suo è il destino più infelice: l’illusione offerta dall’ignoranza del bene. Com’è stato affermato in un altro contesto, non senza punti di contatto con la sapienza socratica, “cosa serve a un uomo guadagnare il mondo intero, se perde la sua anima”? Volere veramente il bene di qualcuno (come ad esempio un amico, un figlio) non può significare augurargli di eludere la responsabilità delle sue azioni; semmai dovrebbe essere il contrario. Chi – affetto a sua volta dal male – odiasse infatti un nemico, dovrebbe auspicare precisamente questo. Materia di riflessione, credo, anche per i partecipanti ai prossimi, rinnovati, girotondi...