Albrecht Dürer, Navis Stultorum (in S. Brant, Narrenschiff - 1497)

domenica 28 giugno 2009

Agonia di una (pessima) amministrazione

Cosa succede a Como? Nell'arco di un solo giorno apprendiamo che l'intera operazione Ticosa è in grave pericolo (i ritardi dovuti alla mancata bonifica dell'amianto sono definiti "insostenibili" da Multi); che per le dissestate strade comunali l'Assessore riduce il budget di cinque volte, così che la maggior parte delle buche rimarrà e si ingrandirà (tanto, sono le nostre auto ad andarci di mezzo); che la realizzazione della tangenziale nei capoluoghi vicini è garantita, ma a Como no, o si riduce drasticamente (dopo che gli stanziamenti sono stati ripetutamente garantiti da una pletora di politici, anche romani e milanesi); infine, ciliegina sulla torta, che il vicesindaco viene rinviato a giudizio per una serie di rimborsi indebitamente percepiti.
Già di per sé, senza considerare tante altre magagne susseguitesi nei mesi passati, questa è una situazione terribilmente preoccupante. Sarà dovuta a sfavorevoli congiunture astrali? Sarà la "crisi mondiale" che improvvisamente ha deciso di scatenarsi con inaudita violenza proprio a Como? Per fortuna i politici responsabili non hanno (ancora) dichiarato che si tratta di una bieca congiura alimentata dai giornali. Su alcuni dei quali possiamo leggere, nei loro confronti, motivate accuse di superficialità, sicumera, scarsa competenza. Alle quali verrebbe da aggiungere quelle di costante insensibilità nei confronti dei cittadini (nella vicenda del cedro, ma non solo) e soprattutto di un'implacabile rissosità, degna di una guerra per bande, con l'attività paralizzata per mesi dalla pretesa di rimpasti in Giunta, peraltro rivelatisi del tutto inutili a placare appetiti ed animosità; cosicché il Sindaco già annuncia di essere pronto a fare le valigie, per accomodarsi con largo anticipo su di una confortevole poltrona regionale.
La misura non è mai colma? Feste, fuochi d'artificio e discorsi da imbonitori, all'amministrazione del centrodestra, non sono mai mancati. I risultati pratici, al contrario, sono estremamente scarsi e testimoniano un'assenza pressoché assoluta di visione, di concepire credibilmente un futuro che non consegni la città al totale declino. Ciò in cui gli elettori comaschi hanno creduto per anni, si rivela con evidenza nient'altro che un mito: quello di un'efficienza amministrativa continuamente strombazzata come appartenente al DNA del centrodestra locale e pregiudizialmente negata alla parte politica avversa, senza che ci sia mai stato uno straccio di controprova.
La democrazia dell'alternanza, come mostra l'esperienza dei paesi più civili, ha diversi vantaggi, in primo luogo quello di mandare a casa chi ci ha deluso, affinché cerchi di migliorarsi, riflettendo sugli errori, smettendo i panni dell'arroganza e tornando a considerare gli interessi veri della città, non quelli delle consorterie. Invece, mantenere le situazioni bloccate e regalare conferme "a scatola chiusa", con i paraocchi dell'ideologia, genera solo effetti perversi, proprio come quelli che sono in questi giorni sotto gli occhi di tutti. Potrà un giorno questo principio elementare divenire senso comune? In caso contrario, vorrà dire che quei mali che tutti oggi denunciano ce li siamo proprio andati a cercare.

mercoledì 17 giugno 2009

Il passo del gambero

Si è mai vista una banca o un'assicurazione votare in Parlamento? Noi elettori abbiamo mai dato mandato ai rappresentanti del popolo di tutelare gli interessi di monopoli, cartelli, organizzazioni consociative al posto di quelli della "gente" di cui tutti si riempiono la bocca in campagna elettorale? Per gli eletti il mantenimento dei privilegi corporativi viene forse prima della difesa dei cittadini? Queste domande sorgono spontanee dopo la lettura della relazione annuale del presidente dell'Antitrust, Antonio Catricalà, presentata lo scorso 16 giugno.
L'attività delle Camere, infatti, registra uno "stillicidio di iniziative volto a restaurare gli equilibri del passato, a detrimento dei consumatori", e così, anziché adeguarsi alle normative già approvate, i monopolisti fanno finta di nulla e resistono, certi che qualche azione compiacente li esimerà dal cambiare le antiche abitudini e che i costi della recessione graveranno interamente sulle nostre spalle.
Che in Italia la modernizzazione del quadro giuridico in senso favorevole alla libera concorrenza stenti ad affermarsi è sotto gli occhi di tutti: basterebbe rammentare le alzate di scudi contro il povero Bersani nella passata legislatura e contemplare la colpevole inerzia in proposito di quella presente. Nel paese è anzi in atto un tentativo di tornare indietro rispetto alle pur timide conquiste ottenute dai consumatori, con grave pregiudizio della nostra competitività futura, seppur con grande convenienza per le rendite di posizione e le corporazioni.
Com'è possibile che non pochi "onorevoli" (le virgolette sono d'obbligo) sentano il bisogno, come sta avvenendo, di abolire le parafarmacie, colpevoli di praticare modesti sconti sui farmaci da banco, oppure di cancellare la facoltà di recesso annuale nel settore assicurativo? Perché per la legge sulla "class action" il rinvio voluto dal Governo non è servito a nulla, e si profila piuttosto un suo peggioramento?
È pur vero che dovremmo essere abituati al peggio: i politici sedicenti fautori del liberismo economico, in Italia, hanno manifestato nei fatti atteggiamenti spesso risibili e contraddittori, sino ad invocare un protezionismo più o meno spinto con la scusa di "affrontare la crisi". Ma quale può essere la vera ragione per cui non si vuole modernizzare il paese sotto questo aspetto e invece, secondo il messaggio dell'Authority, si tende a invertire il cammino? Perché a suo tempo non ci hanno fatto leggere nei loro programmi elettorali questa volontà di restaurare l'antico, di garantire i privilegi di pochi grandi gruppi e potentati economici? Ripeto, li abbiamo eletti per farci tutelare o per farci turlupinare? 

giovedì 4 giugno 2009

Il Nobel per l'economia a Bossi e Tremonti. Risolto il problema della povertà nel Sud del mondo

Nei suoi comizi nel lodigiano Umberto Bossi ha appena rilanciato uno degli slogan più antichi della Lega: "Aiutarli a casa loro". "Loro", ovviamente, sono gli abitanti dei paesi poveri: di concerto con Tremonti, l'ineffabile statista ed economista lancia "l'idea che si possa aggiungere l'uno per cento ad alcuni articoli di grande consumo. Chi va a comprare, potrà scegliere se comprare quelli oppure le stesse cose a prezzo normale". Il ricavato della vendita a prezzo maggiorato dovrebbe confluire in un fondo "che serve appunto a realizzare quello che serve nei paesi da cui provengono gli immigrati". Apprendiamo poi dalla voce di Giorgetti che su questo progetto il duo Bossi-Tremonti aveva già cominciato a lavorare qualche anno fa.
Occorre proprio pensare tanto, per formulare una proposta di tal genere. Il risultato è notevole: dopo grandi sforzi, si è finalmente trovato un modo per aiutare i paesi in via di sviluppo. Nessuno di noi avrebbe mai saputo, altrimenti, come sostenere concretamente progetti di aiuto, magari attraverso ONG, associazioni di volontariato, padri missionari e simili. Invece, a quanto pare, c'è assoluto bisogno di un fondo burocratico a gestione statale, alimentato con i contributi volontari dei consumatori. Quanto volentieri gli stessi consumatori si disporranno a partecipare, in questo momento di crisi evidente e di bilanci familiari ridotti all'osso, è facile immaginare.
Ma la causa, si dirà, è altamente benefica. Lo è indubbiamente. Proprio per questo, la proposta dei due luminari dell'economia planetaria si evidenzia come l'ennesima baggianata cui i politici italiani fanno ricorso quando non sanno mantenere le promesse, offensiva per l'intelligenza degli elettori e ancor più per la miseria dei popoli indigenti. Gli impegni ufficiali suonavano, già dal precedente governo del centrodestra, come un impegno a destinare lo 0,33% del Pil all'aiuto allo sviluppo entro il 2006. Ebbene, con i tagli delle finanziarie di Tremonti, la percentuale destinata dall'Italia alla cooperazione era scesa dallo 0,17% allo 0,11%, poi risalita un poco (per “colpa” di Prodi), e attualmente attestata attorno allo 0,15%, dato anche che le quote continuano a essere falsate dalla contabilizzazione della cancellazione del debito dei Paesi in via di sviluppo; in termini reali, c'è stata una riduzione di 100 milioni di dollari sui valori per l’aiuto pubblico allo sviluppo nel solo periodo 2007-2008. Prendendo in considerazione gli impegni presi nel passato, si tratta di un buco stimabile in 3 miliardi di dollari sino ad ora, che si traducono in mancata assistenza a milioni di persone che hanno bisogno di cibo, acqua, istruzione e educazione.
Chi è in grado di sapere perché tale quota si sia costantemente ridotta, anziché aumentare? Noi non potremmo scommettere esattamente se i soldi mancanti siano andati a coprire i buchi milionari di Alitalia, o del comune di Catania, o per un rivolo di altri sprechi minori legati ai privilegi della casta. Sappiamo solo che ora vengono a raccontarci che dovremmo essere noi, con un modesto aggravio sulla spesa quotidiana, a fornire a uno stato sprecone i soldi per una doverosa opera di solidarietà. Personalmente rispondo che fornire alibi a chi non sa amministrare, e ha sinora costantemente ridotto gli impegni di solidarietà internazionale, non è compito mio. Pago già ampiamente le tasse dovute, e mi spaventa non poco l'idea di nuovi "calderoni" in cui una parte cospicua del denaro eventualmente raccolto se ne andrà, per usare un gentile eufemismo, in consigli di amministrazione e "spese di gestione". Per "aiutarli a casa loro" ci sono già numerose organizzazioni non governative, in genere molto più affidabili: sarà un caso che anche a loro, da qualche anno in qua, il governo abbia lesinato sempre più contributi ed agevolazioni?