Albrecht Dürer, Navis Stultorum (in S. Brant, Narrenschiff - 1497)

mercoledì 27 gennaio 2010

Politici stizzosi (la colpa, si sa, è dell'opposizione...)

A Como può capitare, guardando alcune trasmissioni televisive locali, di vedere non pochi esponenti locali della maggioranza al governo posti in serio imbarazzo dall'evidenza dei fatti (palesi difficoltà nell'amministrare correttamente la città, contrasti interni per ragioni a volte neppure confessabili, figuracce per le cento promesse elettorali non mantenute, e via discorrendo), che reagiscono stizzosamente, ribaltando sulle opposizioni accuse di divisione, di non avere idee né proposte, di non formulare progetti condivisibili.
Magari sarà così. Tuttavia a un attento osservatore dei consigli comunali degli ultimi mesi sembrerebbe piuttosto che dai banchi delle opposizioni si sia giocato un ruolo assai più attivo nel dibattito che non da quelli della maggioranza, a prescindere naturalmente dalla valutazione degli esiti più o meno efficaci di queste sedute. Come giudicare, ad esempio, il fatto che le mozioni approvate dal consiglio rimangano a tutti gli effetti lettera morta, come nel caso del sostegno agli studenti comaschi delle scuole medie per l’acquisto dei libri di testo? E cosa pensare di un sindaco che, nell’ultima votazione sul famigerato muro a lago, dichiara che non darà corso a quanto approvato perché a suo dire è contra legem? Forse che è destinato a passare alla storia, oltre che dell’ingegneria, anche della giurisprudenza…
A parte il merito delle proposte, tuttavia, sconcerta il metodo del ribaltamento dei ruoli, oltretutto fastidiosamente vittimistico e non di rado maldestramente eseguito. Grande merito, quello di dire a chi non governa che deve tacere perché non sarebbe comunque capace di governare… senza l’onere della controprova! Chi ha vinto le elezioni dovrebbe invece ricordare che ha voluto la bicicletta, l’ha ottenuta, e adesso il suo compito è quello di pedalare, non tanto di additare ai comaschi la presunta inefficacia dell’opposizione: la quale avrà le sue colpe, e sarà ad ogni modo schiacciata dalla legge dei numeri in consiglio, ma non risulta in alcun trattato di politica che abbia il compito di togliere le castagne dal fuoco alla maggioranza, né di fare solo proposte che risultino ad essa gradite.
Piuttosto, essa deve saper vigilare a difesa degli interessi della cittadinanza tutta (e davvero non la soccorrono gli scarsi poteri d’intervento del consiglio nei confronti di una giunta sostanzialmente sorda a ogni proposta di correzione). Come un bravo “cane da guardia” - gli anglosassoni usano l’espressione watchdog, anche se con primario riferimento agli organi d’informazione - quando fa il suo dovere, sarà così sopportabile anche qualche latrato di troppo. Mentre chi governa dovrebbe pensare a tirare la slitta nella direzione che ha pubblicamente dichiarato agli elettori, anziché grattarsi di continuo le pulci, azzannarsi con gli altri componenti della muta, prendere vistose sbandate, e dichiarare stonate le voci – pardòn, gli ululati – fuori dal coro. In ogni caso, dovrebbe smetterla di chiamare a pietoso paravento del proprio operato il fatto che i colleghi del posto di guardia non tirino la slitta in vece sua.

sabato 12 dicembre 2009

Illusionisti

Più osserviamo le cronache, più evidente si fa la convinzione che in questo Paese la strada maestra per affermarsi consista nel possesso di facoltà illusionistiche. Vero è che non tutti ci riescono bene: ad esempio Tanzi, già padrone di Parmalat, riuscì a far sparire i milioni degli investitori, ma il trucco è poi stato svelato, sia pure in ritardo. Del resto non gli è andata molto meglio neppure con i quadri di valore che negava sfacciatamente di possedere, e che la polizia ha fatto recentemente riapparire.
Però è indubbio che a deformare sistematicamente la realtà qualche risultato si può cogliere, se si trova qualche pollo che ci crede. Nel suo piccolo, ci prova anche un paparazzo condannato per ricatto, quando dichiara di vergognarsi di essere italiano, piuttosto che dei reati commessi.
A un più alto livello, esponenti di un neopaganesimo inventato per ragioni politiche di bassa lega danno lezioni ai cardinali più stimati sul modo corretto di intendere la carità cristiana. Spiegando cioè, in sostanza, che Nostro Signore ha predicato un amore “ristretto” agli indigeni e non universale, raccomandando di accogliere il bisognoso solo a condizione di poterlo sfruttare, e che di condivisione, fraternità, perdono Egli non si è mai sognato di parlare. Dai nuovi profeti apprendiamo, invece, che portò effettivamente un comandamento nuovo: quello di difendere a spada tratta la “tradizione”, qualunque cosa ciò significhi...
Infine, al vertice della categoria, si erge un grande perseguitato che, dall'esilio (temporaneo) di Bonn, racconta all'Europa intera che egli è “forte e duro” come nessun altro, e che tutti lo giudicano “super”. Nessun dubbio che il soggetto si consideri “al di sopra”, soprattutto riguardo alle istituzioni e alla legge: non solo, perciò, il “duro” ha riproposto il consueto piagnisteo contro i giudici che si accanirebbero senza motivo contro di lui, anzi cospirerebbero formando un fantomatico partito eversivo, ma ha anche attaccato violentemente le fondamentali istituzioni di garanzia previste dalla Costituzione, che evidentemente non meritano il suo rispetto né quello degli Italiani che a lui guardano.
Insomma, desolanti polveroni di parole che mettono in atto però un significativo effetto illusorio, perché nascondono realtà ben più concrete e preoccupanti: come il fatto attualissimo che i Comuni navigano in acque sempre più difficili in quanto non ricevono dal Governo i soldi necessari per erogare i servizi pagati dai contribuenti, anche se sono stati più volte promessi con mille assicurazioni. Illusioni, appunto.

lunedì 16 novembre 2009

Probi viri... e bestie grame

Grande attenzione sulla ribalta nazionale, in queste settimane, alla città di Como, purtroppo in coincidenza con le celebrazioni per la caduta del Muro più celebre del XX secolo. È toccato così a noi comaschi dare al resto d’Italia la cattiva impressione che ci facesse piacere rinchiuderci dietro alte pareti, o che ci desse fastidio la vista del lago, o che da noi sia normale che i progetti approvati in un modo si modifichino senza che nessuno, o quasi, lo venga a sapere. Alla luce di questa disastrosa esperienza, vi è chi tenta già un primo bilancio pubblicando il giudizio delle categorie economiche e sociali, dei cittadini e delle associazioni, e arrivando a registrare una bocciatura senza appello per la giunta di Palazzo Cernezzi. Ciò che doveva rappresentare il fiore all’occhiello dell’Amministrazione (paratie, Ticosa, piano del traffico, futuro dell’ex S. Anna, per non dire dei tanti progetti fermi al palo) si ritorce invece contro i promotori per l’evidente incapacità progettuale e/o operativa dimostrata dai responsabili. Paradossale è ora il caso del cantiere che prosegue imperterrito nell’innalzamento di muraglie, che “tanto, poi, verranno sostituite”: si inaugura così un nuovo metodo ingegneristico, ben più logico di quelli ingenuamente seguiti per secoli, che immagino diventerà ben presto punto di riferimento nelle facoltà universitarie europee.
Nel panorama della “pioggia di critiche” ai saggi amministratori comaschi, tuttavia, quello che più colpisce è che non vengano espressi giudizi negativi nei confronti dei singoli assessori di giunta, tutte considerate persone per bene, bensì del solo organismo nel suo complesso. Qualcuno arriva a scomodare Cicerone il quale, con abbondante diplomazia (fors’anche perché parte in causa), affermava essere i senatori uomini degni, pur considerando il senato una bestia grama: Senatores probi viri, senatus autem mala bestia.
Davvero strano: di solito in un gruppo l’intero è maggiore e migliore della somma delle parti. Pensiamo, che so, ai Beatles o ai Pink Floyd, ad un coro ben diretto, a una squadra di calcio che gioca pensando al collettivo, per giunta divertendosi. Come mai, se gli ingredienti sono tanto buoni, il risultato è così deludente? Forse perché le competenze, più che reali e dimostrate, sono mero frutto di propaganda? Oppure i grandi talenti presenti (in una giunta peraltro “a ricambio costante”) non sono bene amalgamati e vengono mal gestiti dal direttore d’orchestra, sempre più spesso chiamato in causa per una gestione verticistica e affatto partecipata, quel sindaco che sembra oggi raccogliere i frutti di un decisionismo tutto chiuso in sé stesso? Misteri della poltica comasca, nella quale più che i risultati concreti si mettono in luce soprattutto aspiranti primedonne, battibecchi tra galletti, individui assorti nei giochi di potere e nei posizionamenti delle correnti, sullo sfondo di interessi economici sempre più visibili man mano che aumentano le cubature edificate in una città non certo particolarmente soggetta ad incrementi demografici.
Qualcuno dubita, peraltro, che alle prossime elezioni sentiremo ancora le stesse persone parlare di efficienza, buon governo, merito e capacità progettuali? Nel mondo del calcio, in cui settimanalmente si raccontano tante baggianate, sono comunque più seri: chi prenderebbe per buone le affermazioni dei giocatori di una squadra che si proclamassero campioni, “fenomeni”, “piedi d’oro”, dopo averla condotta per via direttissima alla retrocessione?

giovedì 22 ottobre 2009

Bontà

Fin dai tempi di Esopo i lupi, al fine di operare indisturbati, cercano di presentarsi sotto mentite spoglie e forniscono giustificazioni non richieste per ingentilire la propria immagine. Certo, se un malvagio pretende di passare per buono, il suo non è un compito facile. Prendiamo ad esempio un pluriomicida, reo magari di ulteriori, notorie violenze: le sue professioni di bontà apparirebbero a tutti poco credibili, spingendo tutt'al più a qualche interrogativo sulla sua effettiva salute mentale. È probabile che anche un occasionale attaccabrighe, facile all'ira, aggressivo e manesco, stenterebbe a convincere del suo amore per il prossimo persino coloro che sono meglio disposti nei suoi confronti.
E nel caso di un corruttore, materiale o morale, di un sultano delle clientele? Qui le cose cambiano. Non che il suo presentarsi come un uomo pieno di nobili sentimenti sia di per sé più convincente, almeno per chi lo conosce e sa di cosa sia realmente capace. Piuttosto, egli potrebbe trovare facilmente dei sostenitori interessati tra coloro che ha corrotto, i quali avrebbero ogni convenienza a mascherare la natura dei loro rapporti, così come fra i molti che tiene a libro paga (non si deve forse curare con ogni mezzo la propria immagine, in una società fondata sull’apparire?), e persino fra gli inconsapevoli destinatari di quest’opera di propaganda martellante. Questi ultimi, avendo finito per credere alle esternazioni amorevoli di colui che si autodichiara buono e giusto, senza poter distinguere la realtà dalla finzione, si ritroverebbero perciò pronti ad accanirsi contro gli eventuali critici del sedicente sant’uomo: i dubbi sarebbero interpretati come manifestazioni di odio, il dissenso come un’eresia perversa, le prove documentali verrebbero disconosciute, nonostante l’evidenza, come parte di un complotto persecutorio: d’altra parte, è noto che gli uomini buoni devono spesso subire il martirio da parte dei cattivi. La cui cattiveria è confermata dal fatto che (orrore!) non disdegnano di appellarsi a leggi e regole. E difatti il copione preferito da questo ipotetico corruttore dovrebbe essere quello di presentarsi come una vittima processuale di poteri oscuri, che se la prendono con lui proprio e soltanto perché “è buono”, perché “vuole piacere a tutti” e ha il consenso, anzi l’amore, del popolo, realizzando in tal modo una splendida illustrazione di quei meccanismi così finemente descritti da Orwell, per cui è vero non ciò che corrisponde ad un’esperienza diretta, ma ciò che viene dettato dall’alto attraverso i meccanismi del condizionamento ideologico.
Ma come può essermi venuto in mente che questo abbia a che fare con la realtà in cui vivo? Chiedo scusa: ho straparlato, ho sragionato. Infatti sono cose che possono accadere solo in un mio immaginario regno fantastico, magari posto al confine con quello della favolistica classica, in modo che i lupi possano andare e venire dall’uno all’altro a loro piacimento.

mercoledì 30 settembre 2009

Scudo fiscale: la vera cultura del governo

Lo definiscono in settimana. L’aspettano con ansia migliaia di disonesti. Può risolvere i problemi di piccoli evasori e di grandi farabutti. È lo “scudo fiscale”, l’ennesima sanatoria di un governo alla forsennata ricerca di soldi. Lo stesso governo che si proclama implacabile con clandestini e ladri di polli (a parole, almeno), diventa assai condiscendente con profittatori in guanti gialli e con riciclatori di denaro poco pulito.
Il testo del decreto legge correttivo della legge anticrisi, fatto proprio dalle commissioni riunite Bilancio e Finanze che lo avevano approvato martedì, è già stato varato al Senato, con in più la sostanziosa modifica di un emendamento del senatore del Pdl, Salvo Fleres (che il dio degli evasori l’abbia sempre in gloria!). Con esso lo scudo fiscale viene esteso ai reati tributari e alle violazioni contabili, come il falso in bilancio. Inoltre è stabilita la cancellazione dell'obbligo di segnalazione da parte dei professionisti ai fini delle norme antiriciclaggio. Viene estesa la copertura garantita dallo scudo fiscale per le società collegate o controllate estere e, ci informa “Il Sole-24 ore”, sembrano esserci buone possibilità anche per i detentori illegali di immobili oltreconfine.
Non dirò, con Anna Finocchiaro, che “era più onesto il cartello di Medellin”, presentatosi al governo colombiano per offrirgli di far rientrare i capitali all'estero e aiutare così il bilancio pubblico. Ma è sotto gli occhi di tutti che nessuno potrà più indagare sulla costituzione di certi patrimoni, garantiti dall'anonimato, in spregio a qualsiasi norma di civiltà del diritto.
Ancora una volta i cittadini vengono educati dai loro rappresentanti in Parlamento al rispetto di un unico principio etico-giuridico sul quale evidentemente deve reggersi il Paese, almeno per chi vota il provvedimento: Pecunia non olet.
Quale cultura esprime un governo quando afferma in sostanza che non ci si deve preoccupare della provenienza dei soldi che introita? Quale conseguenza ci si deve attendere, se la furbizia di chi evade, di chi froda, di chi non paga i creditori e attua una concorrenza sleale, viene sempre premiata ogni due o tre anni, oltretutto con puntualità impeccabile? Quale dissesto stiamo recando alla parte sana e corretta del tessuto economico del nostro paese? Sono questioni che non sfiorano chi ritiene impossibile contrastare seriamente l’evasione, fors’anche perché non gli è in fondo sgradita, né certamente ritiene di poter aumentare la coscienza civile promuovendo l’adempimento dei propri doveri fiscali con politiche di sgravi e detrazioni per i contribuenti onesti.
Che importa se nella Costituzione c’è scritto il contrario? Al solito, si sceglie la via più facile, quella che in cambio di qualche ipotetico quattrino devasta il senso dello stato, della legalità, della coesione sociale. Un risultato di cui andare fieri.

sabato 12 settembre 2009

Una prospettiva liberale (autentica) per Como?

(versione integrale dell'articolo pubblicato oggi su L'Ordine - Como)
In un mondo disindividualizzato, come notava già Tocqueville, la tendenza all’uniformità delle condizioni e alla semplificazione (che riduce tutto all’utile) presenta il rischio dello spegnimento degli entusiasmi, dell’apatia e del conformismo. L’odierna massificazione, tanto chiaramente espressa da una pletora di programmi televisivi banali o peggio, è forse la più palese conferma di questo timore: se lo sviluppo della propria individualità deve passare da una matura capacità di riflessione critica, non sembra purtroppo che i cittadini del presente siano granché aiutati dagli strumenti della comunicazione, peraltro sempre più potenti e pervasivi.
Dire che sotto questo profilo Como non fa eccezione, in un mondo globalizzato, non è solo un’ovvietà: il problema è che è stato reso arduo persino intravedere i tratti di una “società aperta”, in un contesto che per molteplici aspetti ne sembra l’antitesi, caratterizzato com’è da una palese incapacità a fare sistema, che mostra paralizzanti divisioni in consorterie, pronto a speculare sulle paure e le insicurezze dei cittadini amplificandole nell’oggi senza peraltro predisporre le soluzioni per il domani, con un’assenza di visione strategica di fronte ad un obiettivo arretramento delle potenzialità di sviluppo economico; e ciò proprio a fronte di una paradossale continuità nella conferma di una gestione politica i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti. I mugugni si sprecano, le alternative non si vedono, o forse si preferisce non considerarle. E a fronte di questo, dov’è il confronto tra le forze vive della società? Come ci si applica a realizzare sinergie? È sufficiente procedere per tentativi ed errori?
Una parentesi: si potrebbe imputare a questa descrizione un eccessivo pessimismo. Purtroppo però la prova dei fatti non autorizza speranze a buon mercato, a meno di voler scivolare nella propaganda politica che si autocelebra e vuole vedere realtà rosee ad ogni costo: basterebbe la Ticosa ad ergersi quale monito alla faciloneria di scelte presentate come epocali, festeggiate con sfarzo (se non spreco), e rivelatesi, come tutti stiamo vedendo, un monumento alla incapacità di prevedere elementari congiunture tecniche, a cominciare dalla presenza dell’amianto, ed i conseguenti buchi di bilancio. Come simbolo della situazione comasca - anche pregressa - è impareggiabile: si direbbe quasi creata ad arte da un mago della comunicazione simbolica. Una sorta di contrappasso politico, visto il palese contrasto con una sbandierata immagine di efficienza, sempre più chiaramente rivelatasi posticcia.
Sarà allora una ripresa dell’iniziativa liberale la scossa capace di invertire la mortificante tendenza che la città sembra aver seguito da molti anni, accentuando una distanza da capoluoghi vicini, quali Lecco e Varese, a regione o a torto considerati come più reattivi e intraprendenti? L’auspicio di una rinnovata competizione che porti le migliori intelligenze e professionalità a confrontarsi nel proporre soluzioni utili allo sviluppo della città è certamente suggestivo e va sottoscritto. Naturalmente esso presuppone che, a livello decisionale, vi siano orecchie pronte ad ascoltare senza preconcetti e capaci di valutare senza lasciarsi condizionare dalle appartenenze. Ma diciamo che questa, per l’appunto, dovrebbe essere l’ampiezza di vedute che caratterizza il liberale autentico. Peraltro, sembra pure che un simile liberale debba interrogarsi con particolare attenzione sul tipo di intenzionalità che lo guida. Se parte dai presupposti che ciascuno deve perseguire esclusivamente il bene proprio, che non sono tollerabili correttivi di alcun genere al mercato, che l’unica legge è quella della competizione, e intende applicarli con rigore, sembra un po’ improbabile che egli arrivi per tale via a percepire adeguatamente il valore di una “res publica”, a saperla gestire nell’interesse comune e a prevedere pari opportunità per tutti, sia pure in un ambito giustamente competitivo.
È il problema storico che si sono trovati ad affrontare quei grandi, autentici liberali alla Stuart Mill, consapevoli della necessità di coniugare la libertà individuale con un sistema di regole che impediscano le prevaricazioni e tutelino anche la libertà dei più deboli, mirando congiuntamente ad una più equa distribuzione della ricchezza, vista appunto come condizione di uno sviluppo autonomo della personalità. Quali traduzioni (certo semplificate) sono possibili nel contesto attuale? Tanto per fare un esempio, la politica ad ogni livello dovrebbe operare convintamente, e non limitarsi a dichiarazioni verbali puntualmente disattese, per smantellare quei sistemi di privilegio e quelle rendite di posizione che rendono difficoltoso, se non praticamente impossibile, l’accesso a una serie di professioni ai giovani non “ammanicati”, oppure infarciscono di farraginose procedure burocratiche l’esercizio di un’attività professionale sorretta più dal talento che dalle protezioni. Qualcuno, per inciso, si ricorda l’accoglienza riservata al più deciso liberalizzatore degli ultimi anni, il povero Bersani, accolto da una levata di scudi e da ironie minimizzatrici? Quel poco che si è riuscito a fare resta comunque un modello che attende di essere eguagliato e superato, ed è valso a rivelare un ulteriore tratto caratteristico del capitalismo italico: lo spirito di consorteria che, ovunque può, affossa il merito per privilegiare l’appartenenza e la forma mentis clientelare, ed è pronto a risvegliarsi con particolare violenza quando si sente attaccato. Dovrebbe essere questo il primo nemico da combattere, anche unendo le forze in maniera trasversale agli schieramenti.
Oppure no? Magari la società e la politica comasca sono completamente esenti da questi vizi? Da noi, potrebbe sostenere qualcuno, le nomine nei vari consigli d’amministrazione sono rigorosamente legate alle competenze e alla chiara fama dei designati. Certo che, se costoro fossero convinti assertori del principio del “bene proprio”, saremmo a cavallo: cosa pensare infatti se poi, proprio in virtù di meriti e capacità ritenuti ben al di sopra dell’ordinario, cumulassero nella propria persona incarichi plurimi, senza neppure preoccuparsi di quisquilie come le incompatibilità previste dalla legge? Se proprio dovessero mollare una poltrona – complice, a volte, un qualche infortunio giudiziario – lo farebbero perciò solo dopo averne ricevuta un’altra altrettanto confortevole, e magari anche meglio remunerata. E professandosi addirittura paladini del merito. Ma a Como questo non è mai accaduto…
Oltre il disincanto un poco amaro sullo scenario attuale, quali basi nuove possono sostenere l’avvio di un dialogo tra quanti sono insofferenti di questo andazzo e vorrebbero vedere la propria città finalmente valorizzata dal senso di responsabilità, dalla capacità progettuale, da un denominatore operativo per quanto possibile comune agli uomini di “buona volontà”? Giustamente sono state richiamate alcune recenti espressioni del vescovo: un appello alle coscienze perché riscoprano “motivi fondanti” e “chiavi di volta” dei progetti di amministrazione, che non sono mai fini a se stessi e ancor meno possono essere asserviti all’avidità di interessi senza controllo, l’auri sacra fames che potrebbe ad esempio costituire un’interessante chiave di lettura del recente sviluppo urbanistico del nostro territorio, se osiamo chiamare così la proliferazione di volumetrie dall’utilità assai incerta.
Bastano pochi termini semplici a configurare una sorta di stella polare per un dialogo produttivo ed efficace. Il rispetto delle regole, anzitutto: di regole certe, chiare, eque, che in massima parte già ci sono; solo che restano sulla carta, visto il perenne spirito di condono ad oltranza che sembra giustificare le tante furberie sia di politici spudorati, sia di quei cittadini che li imitano. Lo spirito liberale non può mostrarsi disgiunto da una strenua e vigilante difesa della legalità e della trasparenza nei comportamenti pubblici, arrivando senza remore a chiedere l’estromissione da candidature e posti di responsabilità dei soggetti chiaramente compromessi, non ad operare compromessi al ribasso e baratti. Che questo atteggiamento sia un dato essenziale della migliore tradizione del liberalismo italiano, del resto, lo hanno mostrato i primi anni del governo unitario, quando la Destra storica, manchevole sul piano della sensibilità sociale e del rispetto delle specificità territoriali, aveva tuttavia dato prova di una ragguardevole onestà personale nei suoi rappresentanti e di una dedizione alla causa pubblica che andrebbero riscoperte ed attualizzate dai governanti contemporanei, solo che ne avessero la capacità.
Altro tratto imprescindibile dev’essere la serietà, tanto negli impegni quanto nella comunicazione politica. Il liberale non può che essere orripilato dalle semplificazioni grossolane, quali quelle che ci vengono quotidianamente ammannite dai rigurgiti di un localismo gretto, alimentato da mitologie risibili e da toni prepotenti. Ma deve anche evitare di sottrarsi al confronto, ricorrendo ad accuse fuori tempo massimo di “comunismo” di fronte a proposte riformatrici, magari meritevoli di correzione, ma che nulla hanno a che vedere con le tragiche e condannabili esperienze del passato. Del resto, gli verrebbe mai in mente di bollare come “fasciste” le posizioni conservatrici? Occorre perciò un’opera di pulizia intellettuale che bandisca la pura propaganda e denunci i preconcetti per quello che sono: pessimi espedienti atti (forse, e malamente) a trarsi d’impaccio quando si è rimasti senza valide argomentazioni.
Tutto questo vale come presupposto per un’assunzione credibile di responsabilità verso la cosa pubblica, al di là della ricerca di visibilità personale, del carrierismo e di interessi e ambizioni legittimi e non. È chiedere troppo? Senza dubbio, se la politica va intesa come un isolamento solipsistico nelle stanze del potere, in nome di quel decisionismo mal concepito e peggio interpretato che vediamo andar per la maggiore in città. Se il criterio adottato è invece quello della rappresentanza e della mediazione “alta”, diventa irrinunciabile la dimensione dell’ascolto, della richiesta di stimoli e contributi di idee per migliorare il governo della città, persino (ma questa è fantascienza) della ripresa di iniziativa politica e di un effettivo potere di indirizzo del consiglio comunale.
Per sviluppare queste sinergie non sono certo inutili commissioni ad hoc, che non risolvono magicamente i problemi, ma possono diventare il luogo dove persone dotate di competenze specifiche (senza dimenticare il possibile apporto “dal basso” delle associazioni) traducono in proposte l’amore e la cura per la loro città senza per questo connotarsi in stile sovietico. A due condizioni: una volta posti obiettivi chiari e circoscritti nel tempo, saper funzionare non come organismi burocratici, ma come fucina di idee per il futuro; inoltre chi ha il potere dovrebbe mostrare per una volta una minima capacità di confronto, riservandosi com’è ovvio il livello decisionale, senza però limitarsi alle chiacchiere e alle rassicurazioni. La stampa locale non propone forse, periodicamente, inchieste e interviste ad ampio raggio sul presente e sul futuro della città? Sono iniziative di indubbio merito e significato, ma evidentemente non possono giungere a sintesi propositive in maniera organica e praticabile. Il luogo deve essere un altro.
La speranza, come suol dirsi, è l’ultima a morire: perciò si può, si deve esprimere l’auspicio che in molti sappiano rompere schemi ormai logori e portare il proprio contributo alla rinascita di Como in quanto persone libere da condizionamenti. Ma se avessimo questa ampiezza di vedute, non sarebbe neppure troppo lontana quell’idea kantiana di comunità in senso liberale, il cui fine unico è appunto la libertà dei cittadini, intesa come il loro svolgimento autonomo, e in cui la cui politica, promuovendo il merito senza peraltro escludere nessuno, mira essenzialmente all’attuazione del diritto. Se volessimo tradurre molto liberamente nel nostro contesto l’espressione “il diritto non deve mai esser regolato sulla politica, bensì sempre la politica sul diritto”, potremmo affermare che, se il liberalismo di maniera non è sorretto da una moralità rigorosa, può facilmente degenerare in arte dell’intrallazzo. E che al contrario, onestà intellettuale, lungimiranza, tensione etica possono contraddistinguere in termini saldi e costruttivi un amore per la città che, persa ogni connotazione sentimentalistica, diventa coraggio di affrontare le sfide senza ricorrere a soluzioni di comodo, ma costruendo il futuro con pazienza e razionalità.

mercoledì 2 settembre 2009

Istruzione e tabacchi

Come ogni anno, avvicinandosi l'inzio delle lezioni, puntualmente l'informazione moltiplica i "servizi", specie televisivi, che descrivono in termini preoccupati l'impegno economico affrontato dalle famiglie per l'acquisto dei corredi scolastici. Nessuno nega che i bilanci domestici richiedano un'attenta osservazione, ancor più in tempi di crisi, e che i consumatori vadano tutelati da eventuali ingiusti rincari, ma siamo sicuri che una parte importante non la giochi pure l'ossessione dell'acquisto di zaini firmati, accessori alla moda ed altri orpelli? Inoltre, dati alla mano, sarebbe opportuno riflettere un poco. Le ultime rilevazioni Istat ci dicono che la spesa per l’istruzione delle famiglie italiane tra il 2006 e il 2008 è leggermente diminuita: su una spesa media mensile complessiva di 2.485 euro, la famiglia media sembra dedicare all’educazione soltanto l’1%, risultando in calo rispetto al 2006 dello 0,1% e stabile rispetto al 2007. Ciò in pratica significa che la spesa mensile nel 2006 era di 27 euro, diventati nel 2007 e 2008 “solo” 25 euro.
Ovviamente le statistiche si prestano a differenti letture e non possono corrispondere in maniera precisa al vissuto quotidiano. Resta il fatto che tra i beni di consumo l'istruzione occupa, nella media nazionale, il penultimo posto fra le spese mensili delle famiglie, seguita soltanto da quelle per... consumo di tabacchi. Anzi, in Campania, Sicilia, Abruzzo, Sardegna e Lazio questa spesa sopravanza quella scolastica, mentre in Toscana, Piemonte e Val d’Aosta si spende in tabacchi quanto in istruzione. È solo un dato simbolico? O non si può ritenere una misura concretissima di quanto l'istruzione venga realmente valutata nel nostro paese? Si penserà davvero ad essa come un investimento primario per il futuro delle persone, oppure la si considera un fastidioso pedaggio da pagare, ma che non ha grande legame con la vita adulta, per la quale privilegiare magari consorterie e raccomandazioni, anziché il possesso di reali competenze acquisite con lo studio? Chissà: è verosimile che le risposte siano anche molto diverse, a seconda delle coscienze individuali. Però è certo che per contrastare il declino di una collettività, per mantenerne la capacità di essere competitiva sugli scenari internazionali, scelte di questo tipo non mancano di avere il loro peso e di determinare conseguenze di lungo periodo.
Tornando ai costi per le famiglie, chissà che l'Amministrazione Comunale non decida finalmente di dare applicazione a quanto è stato deliberato pochi mesi or sono dal Consiglio, per coprire almeno le spese dei libri di testo degli studenti delle scuole medie di Como. O è considerato normale non dare corso a quanto viene approvato a maggioranza nelle assemblee elette dai cittadini?

venerdì 21 agosto 2009

Il progresso civile e scientifico? Tutto nel dialetto

Curruptissima respublica plurimae leges: le leggi sono moltissime quando lo stato è corrottissimo, secondo il parere dei nostri progenitori, espresso nel dialetto di allora. Deve averne voluto dare l’ennesima conferma quel capo partito che si è sentito in dovere di proporre una introduzione a scuola dei dialetti come materia obbligatoria. C’è chi liquida queste esternazioni come propaganda ferragostana, buona giusta a far parlare di sé in mancanza di meglio, e anch’io avrei fatto lo stesso se non mi avesse colpito e toccato il ricordo proposto dall’interessato a suffragio della sua tesi. In tempi ormai lontani, il pargolo fu richiamato dal professore che gli correggeva le espressioni dialettali presenti nei temi d’Italiano. In sua difesa si eresse il genitore, replicando piccato al docente che “se non gli piaceva il nostro dialetto, poteva fare le valigie e tornarsene a casa”. Splendido apologo, come avrebbe detto Tasso: “se non è vero, è ben trovato”.
Davvero, non saprei se essere più commosso dalla solidarietà tra consanguinei o da quella tra ignoranti intenzionali ed arroganti, sia detto senza offesa (absit iniuria verbis, secondo la lezione di quel più antico linguaggio). Niente contro il dialetto, per carità, che ben volentieri vedo studiato e valorizzato da chi ne ha l’interesse. Ma utilizzarlo contro il corretto uso della lingua italiana sembra un po’ eccessivo. Quale sarebbe il dovere dell’insegnante di una specifica disciplina? Forse trascurare di insegnarne le regole e di pretenderne la corretta applicazione? E a che scopo, allora, recarsi a lezione d’Italiano (o di Matematica, di Scienze, fate vobis)? Vediamo bene quale sia il reale livello d’insegnamento in molte aree del Mezzogiorno, in parte dovuto anche a questo genere di trascuratezza: si auspica forse che le nostre latitudini siano sempre più popolate di somaroni che comunicano stentatamente, in una quasi totale confusione semantica? Capisco che i particolarismi esasperati giovino a supportare una rozza ideologia e a carpire voti agli sprovveduti, ma non riesco proprio a convincermi che giovino al progresso del nostro povero Paese, di fronte ad una concorrenza internazionale sempre più accentuata, che richiede semmai competenze comunicative in grado di valicare le frontiere, non di erigerne di nuove.
Attendiamo dunque senza alcuna impazienza che la scuola subisca questa ennesima dequalificazione, con il placet già annunciato del relativo ministro, che fin qui ha peraltro avuto come prima cura – e lo vedranno le famiglie – quella di ridurre drasticamente materie ed orari dei licei per gli anni che verranno, tanto per renedere chiaro che in Italia l’investimento in cultura non è affatto priorità della politica, al di là dei proclami. Finché la barca va, sembra essere la massima espressione di consapevolezza espressa da tutti questi atti. E poi?

giovedì 16 luglio 2009

Il parlamento (a servizio del popolo) scongiura il pericolo della class action

Finalmente Roberto Antonione. potrà asciugare le lacrime versate nel novembre del 2007, quando, da senatore di FI, sbagliò a votare e permise l'approvazione della legge sulla “class action” voluta dal governo di centrosinistra. Com'è noto, questo è uno strumento processuale che consente a una pluralità di soggetti che intendano far valere un diritto - siano essi consumatori o utenti di un certo servizio - di adire l’autorità giudiziaria con un’unica causa i cui esiti si riflettano su tutta la categoria.
La nuova maggioranza, di centrodestra, dopo aver sospeso l'efficacia della norma, ne ha ora approvato in Senato una versione modificata, producendo una vera e propria legge beffa. Anzitutto, grazie a un emendamento di Alberto Balboni del Pdl, è esclusa la retroattività: ad esempio non si potranno intentare azioni collettive contro la Parmalat, la Cirio e le banche dei bond argentini, con buona pace dei proclami che la politica ha prodotto per mesi ed anni. Non è previsto nessun ruolo per le associazioni dei consumatori, come invece avviene in tutta Europa; del resto proprio l'UE sta avviando una class action transfrontaliera, ossia capace di varcare i confini nazionali, in cui queste associazioni hanno un ruolo legittimato e riconosciuto. Al contrario, chi vuole far parte di un’azione collettiva in Italia deve ora presentarsi singolarmente, col rischio, quasi certo, di intasare e paralizzare tribunali e segreterie, sbagliare le procedure e creare confusione, come hanno spiegato i presidenti di tutte le principali unioni di consumatori.
Gli utenti che intraprendessero un'azione collettiva contro una grande azienda con motivazioni in seguito ritenute invalide, sono minacciati non solo dal rimborso delle spese giudiziarie, ma anche dal risarcimento di un fantomatico “danno punitivo” apportato alla controparte. Si noti che non vale però il contrario. Non basta: i consumatori ricorrenti dovrebbero dimostrare anche di avere un interesse “identico”. Di proposito non si adopera il termine “omogeneo”. Qual è la differenza? Che le richieste di risarcimento devono appunto essere identiche. Com'è possibile, se, per fare un esempio, ogni danneggiato Cirio o Parmalat ha sottoscritto le obbligazioni in tempi diversi e investito una somma diversa?
Perché chi ci governa non comprende che i diritti dei consumatori sono sempre più intrecciati alla salute pubblica, alla sicurezza, alla difesa dell'ambiente, alla qualità della nostra vita? Quali sono i veri interessi che si vogliono difendere con simili provvedimenti?

domenica 28 giugno 2009

Agonia di una (pessima) amministrazione

Cosa succede a Como? Nell'arco di un solo giorno apprendiamo che l'intera operazione Ticosa è in grave pericolo (i ritardi dovuti alla mancata bonifica dell'amianto sono definiti "insostenibili" da Multi); che per le dissestate strade comunali l'Assessore riduce il budget di cinque volte, così che la maggior parte delle buche rimarrà e si ingrandirà (tanto, sono le nostre auto ad andarci di mezzo); che la realizzazione della tangenziale nei capoluoghi vicini è garantita, ma a Como no, o si riduce drasticamente (dopo che gli stanziamenti sono stati ripetutamente garantiti da una pletora di politici, anche romani e milanesi); infine, ciliegina sulla torta, che il vicesindaco viene rinviato a giudizio per una serie di rimborsi indebitamente percepiti.
Già di per sé, senza considerare tante altre magagne susseguitesi nei mesi passati, questa è una situazione terribilmente preoccupante. Sarà dovuta a sfavorevoli congiunture astrali? Sarà la "crisi mondiale" che improvvisamente ha deciso di scatenarsi con inaudita violenza proprio a Como? Per fortuna i politici responsabili non hanno (ancora) dichiarato che si tratta di una bieca congiura alimentata dai giornali. Su alcuni dei quali possiamo leggere, nei loro confronti, motivate accuse di superficialità, sicumera, scarsa competenza. Alle quali verrebbe da aggiungere quelle di costante insensibilità nei confronti dei cittadini (nella vicenda del cedro, ma non solo) e soprattutto di un'implacabile rissosità, degna di una guerra per bande, con l'attività paralizzata per mesi dalla pretesa di rimpasti in Giunta, peraltro rivelatisi del tutto inutili a placare appetiti ed animosità; cosicché il Sindaco già annuncia di essere pronto a fare le valigie, per accomodarsi con largo anticipo su di una confortevole poltrona regionale.
La misura non è mai colma? Feste, fuochi d'artificio e discorsi da imbonitori, all'amministrazione del centrodestra, non sono mai mancati. I risultati pratici, al contrario, sono estremamente scarsi e testimoniano un'assenza pressoché assoluta di visione, di concepire credibilmente un futuro che non consegni la città al totale declino. Ciò in cui gli elettori comaschi hanno creduto per anni, si rivela con evidenza nient'altro che un mito: quello di un'efficienza amministrativa continuamente strombazzata come appartenente al DNA del centrodestra locale e pregiudizialmente negata alla parte politica avversa, senza che ci sia mai stato uno straccio di controprova.
La democrazia dell'alternanza, come mostra l'esperienza dei paesi più civili, ha diversi vantaggi, in primo luogo quello di mandare a casa chi ci ha deluso, affinché cerchi di migliorarsi, riflettendo sugli errori, smettendo i panni dell'arroganza e tornando a considerare gli interessi veri della città, non quelli delle consorterie. Invece, mantenere le situazioni bloccate e regalare conferme "a scatola chiusa", con i paraocchi dell'ideologia, genera solo effetti perversi, proprio come quelli che sono in questi giorni sotto gli occhi di tutti. Potrà un giorno questo principio elementare divenire senso comune? In caso contrario, vorrà dire che quei mali che tutti oggi denunciano ce li siamo proprio andati a cercare.

mercoledì 17 giugno 2009

Il passo del gambero

Si è mai vista una banca o un'assicurazione votare in Parlamento? Noi elettori abbiamo mai dato mandato ai rappresentanti del popolo di tutelare gli interessi di monopoli, cartelli, organizzazioni consociative al posto di quelli della "gente" di cui tutti si riempiono la bocca in campagna elettorale? Per gli eletti il mantenimento dei privilegi corporativi viene forse prima della difesa dei cittadini? Queste domande sorgono spontanee dopo la lettura della relazione annuale del presidente dell'Antitrust, Antonio Catricalà, presentata lo scorso 16 giugno.
L'attività delle Camere, infatti, registra uno "stillicidio di iniziative volto a restaurare gli equilibri del passato, a detrimento dei consumatori", e così, anziché adeguarsi alle normative già approvate, i monopolisti fanno finta di nulla e resistono, certi che qualche azione compiacente li esimerà dal cambiare le antiche abitudini e che i costi della recessione graveranno interamente sulle nostre spalle.
Che in Italia la modernizzazione del quadro giuridico in senso favorevole alla libera concorrenza stenti ad affermarsi è sotto gli occhi di tutti: basterebbe rammentare le alzate di scudi contro il povero Bersani nella passata legislatura e contemplare la colpevole inerzia in proposito di quella presente. Nel paese è anzi in atto un tentativo di tornare indietro rispetto alle pur timide conquiste ottenute dai consumatori, con grave pregiudizio della nostra competitività futura, seppur con grande convenienza per le rendite di posizione e le corporazioni.
Com'è possibile che non pochi "onorevoli" (le virgolette sono d'obbligo) sentano il bisogno, come sta avvenendo, di abolire le parafarmacie, colpevoli di praticare modesti sconti sui farmaci da banco, oppure di cancellare la facoltà di recesso annuale nel settore assicurativo? Perché per la legge sulla "class action" il rinvio voluto dal Governo non è servito a nulla, e si profila piuttosto un suo peggioramento?
È pur vero che dovremmo essere abituati al peggio: i politici sedicenti fautori del liberismo economico, in Italia, hanno manifestato nei fatti atteggiamenti spesso risibili e contraddittori, sino ad invocare un protezionismo più o meno spinto con la scusa di "affrontare la crisi". Ma quale può essere la vera ragione per cui non si vuole modernizzare il paese sotto questo aspetto e invece, secondo il messaggio dell'Authority, si tende a invertire il cammino? Perché a suo tempo non ci hanno fatto leggere nei loro programmi elettorali questa volontà di restaurare l'antico, di garantire i privilegi di pochi grandi gruppi e potentati economici? Ripeto, li abbiamo eletti per farci tutelare o per farci turlupinare? 

giovedì 4 giugno 2009

Il Nobel per l'economia a Bossi e Tremonti. Risolto il problema della povertà nel Sud del mondo

Nei suoi comizi nel lodigiano Umberto Bossi ha appena rilanciato uno degli slogan più antichi della Lega: "Aiutarli a casa loro". "Loro", ovviamente, sono gli abitanti dei paesi poveri: di concerto con Tremonti, l'ineffabile statista ed economista lancia "l'idea che si possa aggiungere l'uno per cento ad alcuni articoli di grande consumo. Chi va a comprare, potrà scegliere se comprare quelli oppure le stesse cose a prezzo normale". Il ricavato della vendita a prezzo maggiorato dovrebbe confluire in un fondo "che serve appunto a realizzare quello che serve nei paesi da cui provengono gli immigrati". Apprendiamo poi dalla voce di Giorgetti che su questo progetto il duo Bossi-Tremonti aveva già cominciato a lavorare qualche anno fa.
Occorre proprio pensare tanto, per formulare una proposta di tal genere. Il risultato è notevole: dopo grandi sforzi, si è finalmente trovato un modo per aiutare i paesi in via di sviluppo. Nessuno di noi avrebbe mai saputo, altrimenti, come sostenere concretamente progetti di aiuto, magari attraverso ONG, associazioni di volontariato, padri missionari e simili. Invece, a quanto pare, c'è assoluto bisogno di un fondo burocratico a gestione statale, alimentato con i contributi volontari dei consumatori. Quanto volentieri gli stessi consumatori si disporranno a partecipare, in questo momento di crisi evidente e di bilanci familiari ridotti all'osso, è facile immaginare.
Ma la causa, si dirà, è altamente benefica. Lo è indubbiamente. Proprio per questo, la proposta dei due luminari dell'economia planetaria si evidenzia come l'ennesima baggianata cui i politici italiani fanno ricorso quando non sanno mantenere le promesse, offensiva per l'intelligenza degli elettori e ancor più per la miseria dei popoli indigenti. Gli impegni ufficiali suonavano, già dal precedente governo del centrodestra, come un impegno a destinare lo 0,33% del Pil all'aiuto allo sviluppo entro il 2006. Ebbene, con i tagli delle finanziarie di Tremonti, la percentuale destinata dall'Italia alla cooperazione era scesa dallo 0,17% allo 0,11%, poi risalita un poco (per “colpa” di Prodi), e attualmente attestata attorno allo 0,15%, dato anche che le quote continuano a essere falsate dalla contabilizzazione della cancellazione del debito dei Paesi in via di sviluppo; in termini reali, c'è stata una riduzione di 100 milioni di dollari sui valori per l’aiuto pubblico allo sviluppo nel solo periodo 2007-2008. Prendendo in considerazione gli impegni presi nel passato, si tratta di un buco stimabile in 3 miliardi di dollari sino ad ora, che si traducono in mancata assistenza a milioni di persone che hanno bisogno di cibo, acqua, istruzione e educazione.
Chi è in grado di sapere perché tale quota si sia costantemente ridotta, anziché aumentare? Noi non potremmo scommettere esattamente se i soldi mancanti siano andati a coprire i buchi milionari di Alitalia, o del comune di Catania, o per un rivolo di altri sprechi minori legati ai privilegi della casta. Sappiamo solo che ora vengono a raccontarci che dovremmo essere noi, con un modesto aggravio sulla spesa quotidiana, a fornire a uno stato sprecone i soldi per una doverosa opera di solidarietà. Personalmente rispondo che fornire alibi a chi non sa amministrare, e ha sinora costantemente ridotto gli impegni di solidarietà internazionale, non è compito mio. Pago già ampiamente le tasse dovute, e mi spaventa non poco l'idea di nuovi "calderoni" in cui una parte cospicua del denaro eventualmente raccolto se ne andrà, per usare un gentile eufemismo, in consigli di amministrazione e "spese di gestione". Per "aiutarli a casa loro" ci sono già numerose organizzazioni non governative, in genere molto più affidabili: sarà un caso che anche a loro, da qualche anno in qua, il governo abbia lesinato sempre più contributi ed agevolazioni?