Albrecht Dürer, Navis Stultorum (in S. Brant, Narrenschiff - 1497)

sabato 12 settembre 2009

Una prospettiva liberale (autentica) per Como?

(versione integrale dell'articolo pubblicato oggi su L'Ordine - Como)
In un mondo disindividualizzato, come notava già Tocqueville, la tendenza all’uniformità delle condizioni e alla semplificazione (che riduce tutto all’utile) presenta il rischio dello spegnimento degli entusiasmi, dell’apatia e del conformismo. L’odierna massificazione, tanto chiaramente espressa da una pletora di programmi televisivi banali o peggio, è forse la più palese conferma di questo timore: se lo sviluppo della propria individualità deve passare da una matura capacità di riflessione critica, non sembra purtroppo che i cittadini del presente siano granché aiutati dagli strumenti della comunicazione, peraltro sempre più potenti e pervasivi.
Dire che sotto questo profilo Como non fa eccezione, in un mondo globalizzato, non è solo un’ovvietà: il problema è che è stato reso arduo persino intravedere i tratti di una “società aperta”, in un contesto che per molteplici aspetti ne sembra l’antitesi, caratterizzato com’è da una palese incapacità a fare sistema, che mostra paralizzanti divisioni in consorterie, pronto a speculare sulle paure e le insicurezze dei cittadini amplificandole nell’oggi senza peraltro predisporre le soluzioni per il domani, con un’assenza di visione strategica di fronte ad un obiettivo arretramento delle potenzialità di sviluppo economico; e ciò proprio a fronte di una paradossale continuità nella conferma di una gestione politica i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti. I mugugni si sprecano, le alternative non si vedono, o forse si preferisce non considerarle. E a fronte di questo, dov’è il confronto tra le forze vive della società? Come ci si applica a realizzare sinergie? È sufficiente procedere per tentativi ed errori?
Una parentesi: si potrebbe imputare a questa descrizione un eccessivo pessimismo. Purtroppo però la prova dei fatti non autorizza speranze a buon mercato, a meno di voler scivolare nella propaganda politica che si autocelebra e vuole vedere realtà rosee ad ogni costo: basterebbe la Ticosa ad ergersi quale monito alla faciloneria di scelte presentate come epocali, festeggiate con sfarzo (se non spreco), e rivelatesi, come tutti stiamo vedendo, un monumento alla incapacità di prevedere elementari congiunture tecniche, a cominciare dalla presenza dell’amianto, ed i conseguenti buchi di bilancio. Come simbolo della situazione comasca - anche pregressa - è impareggiabile: si direbbe quasi creata ad arte da un mago della comunicazione simbolica. Una sorta di contrappasso politico, visto il palese contrasto con una sbandierata immagine di efficienza, sempre più chiaramente rivelatasi posticcia.
Sarà allora una ripresa dell’iniziativa liberale la scossa capace di invertire la mortificante tendenza che la città sembra aver seguito da molti anni, accentuando una distanza da capoluoghi vicini, quali Lecco e Varese, a regione o a torto considerati come più reattivi e intraprendenti? L’auspicio di una rinnovata competizione che porti le migliori intelligenze e professionalità a confrontarsi nel proporre soluzioni utili allo sviluppo della città è certamente suggestivo e va sottoscritto. Naturalmente esso presuppone che, a livello decisionale, vi siano orecchie pronte ad ascoltare senza preconcetti e capaci di valutare senza lasciarsi condizionare dalle appartenenze. Ma diciamo che questa, per l’appunto, dovrebbe essere l’ampiezza di vedute che caratterizza il liberale autentico. Peraltro, sembra pure che un simile liberale debba interrogarsi con particolare attenzione sul tipo di intenzionalità che lo guida. Se parte dai presupposti che ciascuno deve perseguire esclusivamente il bene proprio, che non sono tollerabili correttivi di alcun genere al mercato, che l’unica legge è quella della competizione, e intende applicarli con rigore, sembra un po’ improbabile che egli arrivi per tale via a percepire adeguatamente il valore di una “res publica”, a saperla gestire nell’interesse comune e a prevedere pari opportunità per tutti, sia pure in un ambito giustamente competitivo.
È il problema storico che si sono trovati ad affrontare quei grandi, autentici liberali alla Stuart Mill, consapevoli della necessità di coniugare la libertà individuale con un sistema di regole che impediscano le prevaricazioni e tutelino anche la libertà dei più deboli, mirando congiuntamente ad una più equa distribuzione della ricchezza, vista appunto come condizione di uno sviluppo autonomo della personalità. Quali traduzioni (certo semplificate) sono possibili nel contesto attuale? Tanto per fare un esempio, la politica ad ogni livello dovrebbe operare convintamente, e non limitarsi a dichiarazioni verbali puntualmente disattese, per smantellare quei sistemi di privilegio e quelle rendite di posizione che rendono difficoltoso, se non praticamente impossibile, l’accesso a una serie di professioni ai giovani non “ammanicati”, oppure infarciscono di farraginose procedure burocratiche l’esercizio di un’attività professionale sorretta più dal talento che dalle protezioni. Qualcuno, per inciso, si ricorda l’accoglienza riservata al più deciso liberalizzatore degli ultimi anni, il povero Bersani, accolto da una levata di scudi e da ironie minimizzatrici? Quel poco che si è riuscito a fare resta comunque un modello che attende di essere eguagliato e superato, ed è valso a rivelare un ulteriore tratto caratteristico del capitalismo italico: lo spirito di consorteria che, ovunque può, affossa il merito per privilegiare l’appartenenza e la forma mentis clientelare, ed è pronto a risvegliarsi con particolare violenza quando si sente attaccato. Dovrebbe essere questo il primo nemico da combattere, anche unendo le forze in maniera trasversale agli schieramenti.
Oppure no? Magari la società e la politica comasca sono completamente esenti da questi vizi? Da noi, potrebbe sostenere qualcuno, le nomine nei vari consigli d’amministrazione sono rigorosamente legate alle competenze e alla chiara fama dei designati. Certo che, se costoro fossero convinti assertori del principio del “bene proprio”, saremmo a cavallo: cosa pensare infatti se poi, proprio in virtù di meriti e capacità ritenuti ben al di sopra dell’ordinario, cumulassero nella propria persona incarichi plurimi, senza neppure preoccuparsi di quisquilie come le incompatibilità previste dalla legge? Se proprio dovessero mollare una poltrona – complice, a volte, un qualche infortunio giudiziario – lo farebbero perciò solo dopo averne ricevuta un’altra altrettanto confortevole, e magari anche meglio remunerata. E professandosi addirittura paladini del merito. Ma a Como questo non è mai accaduto…
Oltre il disincanto un poco amaro sullo scenario attuale, quali basi nuove possono sostenere l’avvio di un dialogo tra quanti sono insofferenti di questo andazzo e vorrebbero vedere la propria città finalmente valorizzata dal senso di responsabilità, dalla capacità progettuale, da un denominatore operativo per quanto possibile comune agli uomini di “buona volontà”? Giustamente sono state richiamate alcune recenti espressioni del vescovo: un appello alle coscienze perché riscoprano “motivi fondanti” e “chiavi di volta” dei progetti di amministrazione, che non sono mai fini a se stessi e ancor meno possono essere asserviti all’avidità di interessi senza controllo, l’auri sacra fames che potrebbe ad esempio costituire un’interessante chiave di lettura del recente sviluppo urbanistico del nostro territorio, se osiamo chiamare così la proliferazione di volumetrie dall’utilità assai incerta.
Bastano pochi termini semplici a configurare una sorta di stella polare per un dialogo produttivo ed efficace. Il rispetto delle regole, anzitutto: di regole certe, chiare, eque, che in massima parte già ci sono; solo che restano sulla carta, visto il perenne spirito di condono ad oltranza che sembra giustificare le tante furberie sia di politici spudorati, sia di quei cittadini che li imitano. Lo spirito liberale non può mostrarsi disgiunto da una strenua e vigilante difesa della legalità e della trasparenza nei comportamenti pubblici, arrivando senza remore a chiedere l’estromissione da candidature e posti di responsabilità dei soggetti chiaramente compromessi, non ad operare compromessi al ribasso e baratti. Che questo atteggiamento sia un dato essenziale della migliore tradizione del liberalismo italiano, del resto, lo hanno mostrato i primi anni del governo unitario, quando la Destra storica, manchevole sul piano della sensibilità sociale e del rispetto delle specificità territoriali, aveva tuttavia dato prova di una ragguardevole onestà personale nei suoi rappresentanti e di una dedizione alla causa pubblica che andrebbero riscoperte ed attualizzate dai governanti contemporanei, solo che ne avessero la capacità.
Altro tratto imprescindibile dev’essere la serietà, tanto negli impegni quanto nella comunicazione politica. Il liberale non può che essere orripilato dalle semplificazioni grossolane, quali quelle che ci vengono quotidianamente ammannite dai rigurgiti di un localismo gretto, alimentato da mitologie risibili e da toni prepotenti. Ma deve anche evitare di sottrarsi al confronto, ricorrendo ad accuse fuori tempo massimo di “comunismo” di fronte a proposte riformatrici, magari meritevoli di correzione, ma che nulla hanno a che vedere con le tragiche e condannabili esperienze del passato. Del resto, gli verrebbe mai in mente di bollare come “fasciste” le posizioni conservatrici? Occorre perciò un’opera di pulizia intellettuale che bandisca la pura propaganda e denunci i preconcetti per quello che sono: pessimi espedienti atti (forse, e malamente) a trarsi d’impaccio quando si è rimasti senza valide argomentazioni.
Tutto questo vale come presupposto per un’assunzione credibile di responsabilità verso la cosa pubblica, al di là della ricerca di visibilità personale, del carrierismo e di interessi e ambizioni legittimi e non. È chiedere troppo? Senza dubbio, se la politica va intesa come un isolamento solipsistico nelle stanze del potere, in nome di quel decisionismo mal concepito e peggio interpretato che vediamo andar per la maggiore in città. Se il criterio adottato è invece quello della rappresentanza e della mediazione “alta”, diventa irrinunciabile la dimensione dell’ascolto, della richiesta di stimoli e contributi di idee per migliorare il governo della città, persino (ma questa è fantascienza) della ripresa di iniziativa politica e di un effettivo potere di indirizzo del consiglio comunale.
Per sviluppare queste sinergie non sono certo inutili commissioni ad hoc, che non risolvono magicamente i problemi, ma possono diventare il luogo dove persone dotate di competenze specifiche (senza dimenticare il possibile apporto “dal basso” delle associazioni) traducono in proposte l’amore e la cura per la loro città senza per questo connotarsi in stile sovietico. A due condizioni: una volta posti obiettivi chiari e circoscritti nel tempo, saper funzionare non come organismi burocratici, ma come fucina di idee per il futuro; inoltre chi ha il potere dovrebbe mostrare per una volta una minima capacità di confronto, riservandosi com’è ovvio il livello decisionale, senza però limitarsi alle chiacchiere e alle rassicurazioni. La stampa locale non propone forse, periodicamente, inchieste e interviste ad ampio raggio sul presente e sul futuro della città? Sono iniziative di indubbio merito e significato, ma evidentemente non possono giungere a sintesi propositive in maniera organica e praticabile. Il luogo deve essere un altro.
La speranza, come suol dirsi, è l’ultima a morire: perciò si può, si deve esprimere l’auspicio che in molti sappiano rompere schemi ormai logori e portare il proprio contributo alla rinascita di Como in quanto persone libere da condizionamenti. Ma se avessimo questa ampiezza di vedute, non sarebbe neppure troppo lontana quell’idea kantiana di comunità in senso liberale, il cui fine unico è appunto la libertà dei cittadini, intesa come il loro svolgimento autonomo, e in cui la cui politica, promuovendo il merito senza peraltro escludere nessuno, mira essenzialmente all’attuazione del diritto. Se volessimo tradurre molto liberamente nel nostro contesto l’espressione “il diritto non deve mai esser regolato sulla politica, bensì sempre la politica sul diritto”, potremmo affermare che, se il liberalismo di maniera non è sorretto da una moralità rigorosa, può facilmente degenerare in arte dell’intrallazzo. E che al contrario, onestà intellettuale, lungimiranza, tensione etica possono contraddistinguere in termini saldi e costruttivi un amore per la città che, persa ogni connotazione sentimentalistica, diventa coraggio di affrontare le sfide senza ricorrere a soluzioni di comodo, ma costruendo il futuro con pazienza e razionalità.