
Albrecht Dürer, Navis Stultorum (in S. Brant, Narrenschiff - 1497)
venerdì 7 novembre 2008
Ahi, serva Italia (che figure all'estero)
Mi scuso per la decontestualizzazione; volutamente ignoro il corollario di insulti e le gaffes che li hanno originati; dubito, infine, che io e lui ci si riferisca alle stesse persone.
Ma quando ora Berlusconi afferma: "Dio ci salvi dagli imbecilli", trovo che abbia perfettamente ragione.
Ma quando ora Berlusconi afferma: "Dio ci salvi dagli imbecilli", trovo che abbia perfettamente ragione.
domenica 2 novembre 2008
L'ultima parola
Lettere al giornale: eccezionalmente il Corriere di Como consente una replica ad una lettrice sui toni usati per deplorare, più che descrivere, le manifestazioni studentesche in città. Ma, essendo persone civili, forniscono poi il diritto di replica al giornalista autore dei commenti più tempestivi, il quale naturalmente prende il doppio dello spazio della lettera.
Deve infatti far capire alla lettrice che lo pregava di prestare più attenzione ai contesti ed ai linguaggi (non confondendo ad esempio il '68 con il '77), che ella è vittima di una "commovente" e insieme preoccupante ingenuità sia che abbia vissuto il '68, sia che gliel'abbiano solo raccontato. Inoltre si discolpa da una presunta accusa di "disonestà intellettuale" con una frase pienamente sottoscrivibile, anche se nel contesto di una excusatio non petita: "credo che l'irrazionalità di un pensiero consegnato a un'ideologia non debba prebalere sulla razionalità basata sull'osservabile e verificabile".
Sante parole. Si sa, però, che il diavolo si nasconde nei dettagli. Come mai, nel commento che ha dato l'avvio al dibattito, si evocavano scritte inneggianti ad "okkupazioni" con la kappa, con gli evidenti richiami storici di taglio pesantemente negativo, ma l'unica scuola in quel momento occupata inalberava uno striscione con la grafia corrente in italiano, oltretutto pubblicata dal quotidiano locale, e ripresa con involontaria ironia anche nella odierna pagina delle lettere? Non è che la campagna di stampa a senso unico che abbiamo avuto modo di apprezzare (studenti giudicati pilotati in quanto incapaci di una riflessione autonoma, proteste interpretate come forme di violenza e prevaricazione sugli altri, lamentazioni sul tempo perso e sull'incomprensibile incapacità di apprezzare una riforma imperniata sui tagli al futuro) è stata concepita "a prescindere"? Quali fatti osservabili e verificabili porterebbero a dire che le manifestazioni comasche sono uscite dai limiti dell'espressione democratica? Che tipo di riflessione critica, infine, si è sentito esprimere sul fatto che le nozze non si possono fare coi fichi secchi, ossia che non appare molto credibile un potenziamento dell'offerta formativa basato su riduzioni di spesa, di personale, di orari? Almeno un dubbio, una domandina che disturbasse il conducente o chiarisse come si può operare il miracolo?
Eh no, si correrebbe il rischio di passare per sessantottini...
Deve infatti far capire alla lettrice che lo pregava di prestare più attenzione ai contesti ed ai linguaggi (non confondendo ad esempio il '68 con il '77), che ella è vittima di una "commovente" e insieme preoccupante ingenuità sia che abbia vissuto il '68, sia che gliel'abbiano solo raccontato. Inoltre si discolpa da una presunta accusa di "disonestà intellettuale" con una frase pienamente sottoscrivibile, anche se nel contesto di una excusatio non petita: "credo che l'irrazionalità di un pensiero consegnato a un'ideologia non debba prebalere sulla razionalità basata sull'osservabile e verificabile".
Sante parole. Si sa, però, che il diavolo si nasconde nei dettagli. Come mai, nel commento che ha dato l'avvio al dibattito, si evocavano scritte inneggianti ad "okkupazioni" con la kappa, con gli evidenti richiami storici di taglio pesantemente negativo, ma l'unica scuola in quel momento occupata inalberava uno striscione con la grafia corrente in italiano, oltretutto pubblicata dal quotidiano locale, e ripresa con involontaria ironia anche nella odierna pagina delle lettere? Non è che la campagna di stampa a senso unico che abbiamo avuto modo di apprezzare (studenti giudicati pilotati in quanto incapaci di una riflessione autonoma, proteste interpretate come forme di violenza e prevaricazione sugli altri, lamentazioni sul tempo perso e sull'incomprensibile incapacità di apprezzare una riforma imperniata sui tagli al futuro) è stata concepita "a prescindere"? Quali fatti osservabili e verificabili porterebbero a dire che le manifestazioni comasche sono uscite dai limiti dell'espressione democratica? Che tipo di riflessione critica, infine, si è sentito esprimere sul fatto che le nozze non si possono fare coi fichi secchi, ossia che non appare molto credibile un potenziamento dell'offerta formativa basato su riduzioni di spesa, di personale, di orari? Almeno un dubbio, una domandina che disturbasse il conducente o chiarisse come si può operare il miracolo?
Eh no, si correrebbe il rischio di passare per sessantottini...
mercoledì 29 ottobre 2008
Il complotto del mentitori
All’origine dei facinorosi, i mentitori: Berlusconi ci spiega così il fatto altrimenti incomprensibile che una “riforma” scolastica a base di tagli alla spesa come quella che lui si è fatto oggi approvare non sembri incontrare il favore della popolazione scolastica. Quale maleficio impedisce al popolo di apprezzare la verità, ossia che tutto quanto egli propone è vero, giusto, sacrosanto, e andrebbe approvato senza neppure discutere? Solo la menzogna sparsa a piene mani da “cattivi maestri”, i suoi oppositori politici in primis, sostenuti dal complotto perennemente ordito ai suoi danni dai mezzi di informazione. Il quale è in sé un altro dogma rivelato dalla sua bocca incapace di pronunciare la benché minima bugia, e quindi lo accogliamo con un reverente atto di… Fede.
Chi ha memoria rivede immutato il copione del Berlusconi 2002, quando appunto egli si decideva a svelare agli Italiani che l’opposizione, ieri come oggi: 1) non sa assolutamente fare il proprio mestiere; 2) manca completamente di quel fair play che invece vediamo con assiduità e profitto applicare ogni giorno in ambiente calcistico; 3) soprattutto, non sapendo far valere ragioni che non ha (è un noto postulato euclideo), essa deve ricorrere sistematicamente alla menzogna. Criticando lui e la sua azione di governo, naturalmente.
Già allora mi veniva in mente una celebre storiella, quella del filosofo cretese Epimenide che andava in giro affermando: «Tutti i Cretesi mentono». Enunciazione singolare, come subito si vede, perché il mentitore che dice di raccontare bugie risulterebbe, allo stesso tempo, mentire e dire la verità, in maniera del tutto contraddittoria. Le complesse implicazioni del paradosso hanno a lungo occupato la mente dei logici dei secoli passati, da Aristotele a Russell e Tarski.
Anche se sembra fare il “piangina”, l’attuale premier lamentandosi non brandisce una spuntata arma polemica, ma espone un (per lui) acutissimo ragionamento. Il suo assunto, in termini logici, suona più o meno così: «Io - che per definizione dico sempre la verità - affermo che chi mi critica o mi si oppone, per questo stesso fatto, mente». È ovvio che questa frase non sarebbe degna della minima considerazione se a pronunciarla fossero un mentitore incallito o un bimbo capriccioso. Ma un gran numero di italiani la prende per vera, e dunque dovrà pure valere la premessa: chi la pronuncia è un uomo che dice sempre la verità. Basta guardarlo (adoranti) in volto per capire che è così. In prima fila, molti politici del centro-destra e una moltitidine di giornalisti che il padrone, quando si lagna dell’informazione, sembra bizzarramente trascurare, negandone l’opera costante e certosina, quasi che Libero, Il Giornale, La Padania – per limitarci ai più acuti, sereni ed obiettivi – neppure esistessero. L’ansia di illuminare le folle, ammettiamolo, rende talvolta il capo un po’ ingrato.
Se questo non bastasse, sappiamo che da qualche anno in Italia si è felicemente affermato il sacrosanto principio dell’autocertificazione: in proposito è conclusiva la dichiarazione del soggetto, e tanto basta. Già da tempo, esponendosi in prima persona, il Cavaliere ebbe ad attestare l’inviolabilità di questo metodo. Chi infatti ha potuto rimanere insensibile davanti alla pietra miliare dell’onestà politica, il famoso giuramento compiuto “sulla testa dei suoi figli”? I suddetti risultano ancora felicemente in possesso della parte anatomica tirata in ballo, ergo…
Chi ha memoria rivede immutato il copione del Berlusconi 2002, quando appunto egli si decideva a svelare agli Italiani che l’opposizione, ieri come oggi: 1) non sa assolutamente fare il proprio mestiere; 2) manca completamente di quel fair play che invece vediamo con assiduità e profitto applicare ogni giorno in ambiente calcistico; 3) soprattutto, non sapendo far valere ragioni che non ha (è un noto postulato euclideo), essa deve ricorrere sistematicamente alla menzogna. Criticando lui e la sua azione di governo, naturalmente.
Già allora mi veniva in mente una celebre storiella, quella del filosofo cretese Epimenide che andava in giro affermando: «Tutti i Cretesi mentono». Enunciazione singolare, come subito si vede, perché il mentitore che dice di raccontare bugie risulterebbe, allo stesso tempo, mentire e dire la verità, in maniera del tutto contraddittoria. Le complesse implicazioni del paradosso hanno a lungo occupato la mente dei logici dei secoli passati, da Aristotele a Russell e Tarski.
Anche se sembra fare il “piangina”, l’attuale premier lamentandosi non brandisce una spuntata arma polemica, ma espone un (per lui) acutissimo ragionamento. Il suo assunto, in termini logici, suona più o meno così: «Io - che per definizione dico sempre la verità - affermo che chi mi critica o mi si oppone, per questo stesso fatto, mente». È ovvio che questa frase non sarebbe degna della minima considerazione se a pronunciarla fossero un mentitore incallito o un bimbo capriccioso. Ma un gran numero di italiani la prende per vera, e dunque dovrà pure valere la premessa: chi la pronuncia è un uomo che dice sempre la verità. Basta guardarlo (adoranti) in volto per capire che è così. In prima fila, molti politici del centro-destra e una moltitidine di giornalisti che il padrone, quando si lagna dell’informazione, sembra bizzarramente trascurare, negandone l’opera costante e certosina, quasi che Libero, Il Giornale, La Padania – per limitarci ai più acuti, sereni ed obiettivi – neppure esistessero. L’ansia di illuminare le folle, ammettiamolo, rende talvolta il capo un po’ ingrato.
Se questo non bastasse, sappiamo che da qualche anno in Italia si è felicemente affermato il sacrosanto principio dell’autocertificazione: in proposito è conclusiva la dichiarazione del soggetto, e tanto basta. Già da tempo, esponendosi in prima persona, il Cavaliere ebbe ad attestare l’inviolabilità di questo metodo. Chi infatti ha potuto rimanere insensibile davanti alla pietra miliare dell’onestà politica, il famoso giuramento compiuto “sulla testa dei suoi figli”? I suddetti risultano ancora felicemente in possesso della parte anatomica tirata in ballo, ergo…
sabato 25 ottobre 2008
Facinorosi
Assistiamo dunque ad un'autentica invasione di facinorosi: parola di presidente del consiglio, prontamente seguito da emulatori in sedicesimo, grati della consolante chiave di lettura. Come quel genitore del liceo scientifico di Como, che tuona contro gli “insegnanti che hanno permesso che la scuola cadesse nelle mani di pochi facinorosi per motivazioni biecamente strumentali”, negando carattere di spontaneità alla - per il momento unica - occupazione realizzata nella nostra città.
D'altra parte, è noto che nella scuola le ragioni di preoccupazione e di protesta sono biecamente strumentali: non è chi non veda che il potenziamento dell'offerta formativa e il miglioramento della qualità passano attraverso generose... sforbiciate. Sono genitore anch'io: e probabilmente l'anno prossimo mio figlio si troverà con un orario ridotto di ben cinque (!) ore settimanali. Dovrà cullarsi nell'illusione di saperne comunque di più, unicamente confidando nella parola del duo Berlusconi-Gelmini? Come genitore e cittadino che paga le tasse, mi sembra piuttosto che così facendo si rompa un contratto educativo che lo Stato aveva stipulato nei confronti miei e di mio figlio.
Gli esempi si potrebbero moltiplicare, dato che questi neoliberisti d'accatto sono davvero convinti in cuor loro che “affamare l'animale” lo sproni ad essere più efficiente ed aggressivo: peccato non si rendano conto che il bestione-scuola è già da tempo agli stremi, privo da decenni di qualsiasi investimento serio, e reso costoso unicamente dalla mole inevitabile degli stipendi. Vogliono eliminare gli sprechi? Si accomodino, ma solo se sono in grado di farlo in maniera selettiva e mirata, non facendo di tutte l'erbe un fascio, con consapevolezza e perspicacia degne di uno scimpanzé giunto per caso nella stanza dei bottoni.
Il dialogo con l'utenza? È praticato in modo unidirezionale (dopo che ho deciso ti ascolto, e poi continuo sulla mia strada come prima), come una noiosa formalità; chi si ostina a voler discutere l'operato del capo è pertanto un “bieco facinoroso”.
Corollario di questa visione è anche che tutti coloro i quali descrivono le proteste sono bollati come suoi complici, com'è il caso della Rai, definita mistificatrice della realtà e addirittura additata agli industriali come ente da boicottare, in quanto “inserisce gli spot dentro programmi dove si diffonde solo panico e sfiducia”. Presumo che l'alternativa, quanto agli spot, sia quella di ingrassare Mediaset come avvenne nella precedente esperienza governativa. Per stampa e televisione, invece, i lacché sono già corsi ai ripari da giorni: l'informazione prona e genuflessa, infatti, non manca di dare conto sì delle agitazioni “facinorose” in tono di disgusto, ma le contornano immancabilmente di nutrite dichiarazioni di dissidenti, che incarnerebbero la cosiddetta “maggioranza silenziosa”. Provate a leggere qualcuno di questi fogli servili, e vi renderete conto che la proporzione “magica”, la regola aurea, varca di gran lunga la soglia del 50%: la maggioranza silenziosa, del resto, meriterà almeno i due terzi, come testimoniano i sondaggi fatti in casa.
Se c'è un segno di speranza in questo squallore, viene da dichiarazioni come quelle di una studentessa romana in televisione, fatta mentre respingeva l'attribuzione di casacche politiche di ogni colore: “quel signore credeva di averci rincretinito per anni con le sue televisioni e i programmi spazzatura. Invece stiamo mostrando di avere la testa per ragionare da soli”.
Il problema è che nel vocabolario dei nuovi signorotti i termini “pensatori liberi”, “spiriti critici” non esistono più; non sanno tradurli altrimenti che con “facinorosi”.
D'altra parte, è noto che nella scuola le ragioni di preoccupazione e di protesta sono biecamente strumentali: non è chi non veda che il potenziamento dell'offerta formativa e il miglioramento della qualità passano attraverso generose... sforbiciate. Sono genitore anch'io: e probabilmente l'anno prossimo mio figlio si troverà con un orario ridotto di ben cinque (!) ore settimanali. Dovrà cullarsi nell'illusione di saperne comunque di più, unicamente confidando nella parola del duo Berlusconi-Gelmini? Come genitore e cittadino che paga le tasse, mi sembra piuttosto che così facendo si rompa un contratto educativo che lo Stato aveva stipulato nei confronti miei e di mio figlio.
Gli esempi si potrebbero moltiplicare, dato che questi neoliberisti d'accatto sono davvero convinti in cuor loro che “affamare l'animale” lo sproni ad essere più efficiente ed aggressivo: peccato non si rendano conto che il bestione-scuola è già da tempo agli stremi, privo da decenni di qualsiasi investimento serio, e reso costoso unicamente dalla mole inevitabile degli stipendi. Vogliono eliminare gli sprechi? Si accomodino, ma solo se sono in grado di farlo in maniera selettiva e mirata, non facendo di tutte l'erbe un fascio, con consapevolezza e perspicacia degne di uno scimpanzé giunto per caso nella stanza dei bottoni.
Il dialogo con l'utenza? È praticato in modo unidirezionale (dopo che ho deciso ti ascolto, e poi continuo sulla mia strada come prima), come una noiosa formalità; chi si ostina a voler discutere l'operato del capo è pertanto un “bieco facinoroso”.
Corollario di questa visione è anche che tutti coloro i quali descrivono le proteste sono bollati come suoi complici, com'è il caso della Rai, definita mistificatrice della realtà e addirittura additata agli industriali come ente da boicottare, in quanto “inserisce gli spot dentro programmi dove si diffonde solo panico e sfiducia”. Presumo che l'alternativa, quanto agli spot, sia quella di ingrassare Mediaset come avvenne nella precedente esperienza governativa. Per stampa e televisione, invece, i lacché sono già corsi ai ripari da giorni: l'informazione prona e genuflessa, infatti, non manca di dare conto sì delle agitazioni “facinorose” in tono di disgusto, ma le contornano immancabilmente di nutrite dichiarazioni di dissidenti, che incarnerebbero la cosiddetta “maggioranza silenziosa”. Provate a leggere qualcuno di questi fogli servili, e vi renderete conto che la proporzione “magica”, la regola aurea, varca di gran lunga la soglia del 50%: la maggioranza silenziosa, del resto, meriterà almeno i due terzi, come testimoniano i sondaggi fatti in casa.
Se c'è un segno di speranza in questo squallore, viene da dichiarazioni come quelle di una studentessa romana in televisione, fatta mentre respingeva l'attribuzione di casacche politiche di ogni colore: “quel signore credeva di averci rincretinito per anni con le sue televisioni e i programmi spazzatura. Invece stiamo mostrando di avere la testa per ragionare da soli”.
Il problema è che nel vocabolario dei nuovi signorotti i termini “pensatori liberi”, “spiriti critici” non esistono più; non sanno tradurli altrimenti che con “facinorosi”.
mercoledì 8 ottobre 2008
Il regime? Naturalmente non esiste
Ecco il mantra che conservatori, moderati, riformatori (e però anche diversi figuri poco raccomandabili) legittimamente recitano in ogni occasione in cui l'attendibilità di un'informazione schierata viene messa in discussione dai suoi stessi silenzi, parzialità, ammiccamenti, inginocchiamenti...
Ma è vero, in effetti la libertà di informazione non è conculcata nel nostro paese. Perché non ce n'è è bisogno. I responsabili degli spazi più importanti sul piano della diffusione, a cominciare dai telegiornali, non sentono infatti il bisogno di tutelare l'obiettività e l'equilibrio: perché dovrebbero, se il pubblico trangugia di tutto? È assai più conveniente inchinarsi al padrone di turno: o meglio, al Padrone, soprattutto quando è il suo turno. L'ossequio non si mostra solo nella sovrabbondanza dell'ostensione del capo e dei suoi esaltatori, ma soprattutto nell'attenuazione delle presenze degli oppositori: gente che sgradevolmente incrina l'immagine di consenso e di fiducia, e per mestiere parla male del Principe. Insomma, se non l'etica professionale, tutelano almeno l'estetica soft della nuova era dell'assenso, professando una sottomissione servile probabilmente neppure richiesta.
Tutto come sempre: Franza o Spagna, purché se magna - ma con una certa, sospetta preferenza per una delle due parti, come la storia dell'ultimo decennio insegna. Evviva dunque la deontologia professionale.
Se qualcuno dubitasse della fondatezza delle osservazioni sopra riportate, lo invito a leggere quanto Aldo Grasso nella sua rubrica “A fil di rete” (Corriere, 6 ottobre) riporta presentando i semplici dati. I freddi numeri, non le interpretazioni maliziose.
L’opposizione è data per dispersa nei principali tg nazionali. Un tempo si ragionava sulla faziosità, sui «panini», sull’equilibrio dell’informazione. Ora siamo oltre: perché a leggere la classifica delle presenze nei notiziari si scopre che l’opposizione sembra essersi dileguata. "In classifica stacca tutti Silvio Berlusconi, che a settembre totalizza oltre 110 minuti di «parola» nei sette tg nazionali. Il presidente del Consiglio guida normalmente questa classifica, era così anche con Prodi (sebbene Berlusconi ha maggiore capacità di «far notizia»). È quel che segue che è anomalo: il leader dell’opposizione di solito è a un’incollatura. E invece Veltroni si ferma a 44 minuti «di parola», meno della metà (di cui 33 solo nei tg Rai, con una scarsa attenzione nei tg Mediaset). Dopo di lui il vuoto. C’è il presidente Napolitano, il presidente Fini (le cariche istituzionali), Roberto Maroni, Maurizio Sacconi, Maurizio Gasparri, Giulio Tremonti. Poi Pier Ferdinando Casini e Antonio Di Pietro, ma del Pd nulla fino al quindicesimo posto di Pierluigi Bersani."
Grasso, che non è tenero col PD, sostiene che i numeri riflettono oggettivamente un vuoto percepito in questa fase del rapporto politica/tv. Ma senza ingenuità, gli stessi dati confermano che un partito debole in questo momento, ma non silente, un partito che forse non ha ancora trovato le ricette giuste, ma che non ha abbandonato l'iniziativa politica, che parla, commenta, interviene (almeno a leggere gli atti parlamentari e i documenti pubblicati sui siti) può essere opportunamente "silenziato" con la tattica del "minimo indispensabile". Non può trattarsi solo della mediocrità dei dirigenti: avete visto che facce, che eloquio, che profondità di ragionamento nella maggior parte dei soloni del centrodestra che si contrappongono loro. Piuttosto, è che i silenzi pilotati aiutano molto, definiscono un'immagine che non ci si stacca più di dosso.
Non è difficile comprendere questa strategia per un comasco, che è abituato da sempre ai comportamenti della stampa locale. Ma se fossi nei panni degli Italiani, assisterei con preoccupazione al dilagare in tutto il paese di un (auto)controllo opportunistico dell'informazione per le masse, di un conformismo deteriore, della più totale assenza di spirito critico. Mi devo correggere, quest'ultima non è afatto totale, perché è considerato meritorio esercitarla nei confronti di chi è più debole, e magari se lo merita anche. Ma l'esercizio condotto a senso unico rivela la statura professionale di chi lo compie.
Ma è vero, in effetti la libertà di informazione non è conculcata nel nostro paese. Perché non ce n'è è bisogno. I responsabili degli spazi più importanti sul piano della diffusione, a cominciare dai telegiornali, non sentono infatti il bisogno di tutelare l'obiettività e l'equilibrio: perché dovrebbero, se il pubblico trangugia di tutto? È assai più conveniente inchinarsi al padrone di turno: o meglio, al Padrone, soprattutto quando è il suo turno. L'ossequio non si mostra solo nella sovrabbondanza dell'ostensione del capo e dei suoi esaltatori, ma soprattutto nell'attenuazione delle presenze degli oppositori: gente che sgradevolmente incrina l'immagine di consenso e di fiducia, e per mestiere parla male del Principe. Insomma, se non l'etica professionale, tutelano almeno l'estetica soft della nuova era dell'assenso, professando una sottomissione servile probabilmente neppure richiesta.
Tutto come sempre: Franza o Spagna, purché se magna - ma con una certa, sospetta preferenza per una delle due parti, come la storia dell'ultimo decennio insegna. Evviva dunque la deontologia professionale.
Se qualcuno dubitasse della fondatezza delle osservazioni sopra riportate, lo invito a leggere quanto Aldo Grasso nella sua rubrica “A fil di rete” (Corriere, 6 ottobre) riporta presentando i semplici dati. I freddi numeri, non le interpretazioni maliziose.
L’opposizione è data per dispersa nei principali tg nazionali. Un tempo si ragionava sulla faziosità, sui «panini», sull’equilibrio dell’informazione. Ora siamo oltre: perché a leggere la classifica delle presenze nei notiziari si scopre che l’opposizione sembra essersi dileguata. "In classifica stacca tutti Silvio Berlusconi, che a settembre totalizza oltre 110 minuti di «parola» nei sette tg nazionali. Il presidente del Consiglio guida normalmente questa classifica, era così anche con Prodi (sebbene Berlusconi ha maggiore capacità di «far notizia»). È quel che segue che è anomalo: il leader dell’opposizione di solito è a un’incollatura. E invece Veltroni si ferma a 44 minuti «di parola», meno della metà (di cui 33 solo nei tg Rai, con una scarsa attenzione nei tg Mediaset). Dopo di lui il vuoto. C’è il presidente Napolitano, il presidente Fini (le cariche istituzionali), Roberto Maroni, Maurizio Sacconi, Maurizio Gasparri, Giulio Tremonti. Poi Pier Ferdinando Casini e Antonio Di Pietro, ma del Pd nulla fino al quindicesimo posto di Pierluigi Bersani."
Grasso, che non è tenero col PD, sostiene che i numeri riflettono oggettivamente un vuoto percepito in questa fase del rapporto politica/tv. Ma senza ingenuità, gli stessi dati confermano che un partito debole in questo momento, ma non silente, un partito che forse non ha ancora trovato le ricette giuste, ma che non ha abbandonato l'iniziativa politica, che parla, commenta, interviene (almeno a leggere gli atti parlamentari e i documenti pubblicati sui siti) può essere opportunamente "silenziato" con la tattica del "minimo indispensabile". Non può trattarsi solo della mediocrità dei dirigenti: avete visto che facce, che eloquio, che profondità di ragionamento nella maggior parte dei soloni del centrodestra che si contrappongono loro. Piuttosto, è che i silenzi pilotati aiutano molto, definiscono un'immagine che non ci si stacca più di dosso.
Non è difficile comprendere questa strategia per un comasco, che è abituato da sempre ai comportamenti della stampa locale. Ma se fossi nei panni degli Italiani, assisterei con preoccupazione al dilagare in tutto il paese di un (auto)controllo opportunistico dell'informazione per le masse, di un conformismo deteriore, della più totale assenza di spirito critico. Mi devo correggere, quest'ultima non è afatto totale, perché è considerato meritorio esercitarla nei confronti di chi è più debole, e magari se lo merita anche. Ma l'esercizio condotto a senso unico rivela la statura professionale di chi lo compie.
giovedì 25 settembre 2008
Un ricordo del "Giovio" (da studente)
Con l'occasione del nuovo anno scolastico, ecco una sintetica retrospettiva della mia lontana esperienza di studente, che mi è stata chiesta per l'annuario dell'Istituto.
Premetto che non sono mai stato un fanatico del Giovio come istituzione: non ho mai sentito l'esigenza di periodici “pellegrinaggi alle radici” (pur essendo nato in questi edifici all'epoca in cui la struttura ospitava il reparto maternità dell'ospedale cittadino), ma in qualche modo la mia esistenza si è legata a più riprese al Liceo. La casa dove ora risiedo fu in passato abitata da un suo preside, al Giovio ho conosciuto la ragazza che mi avrebbe accompagnato, o subìto, per il resto della mia esistenza (ovviamente, la cosa migliore che mi sia capitata tra queste mura), al Giovio sono tornato come insegnante, anche se per scelta del provveditorato, non su mia insistenza. Coincidenze, che però sono significative anche in una città piccola come la nostra.
Il Giovio da me vissuto come studente è quello di circa trent'anni fa: una struttura molto simile (senza la palestra grande e gli ampliamenti recenti), ma con un numero di studenti inferiore alla metà dell'attuale. Anche allora però non ci si conosceva tutti; le occasioni di confronto erano rappresentate soprattutto da assemblee studentesche molto diverse dalle odierne giornate autogestite, con discussioni a volte ingenue su argomenti spesso più grandi di noi, cosa della quale ovviamente eravamo poco consapevoli. Neppure avevamo “progetti” da attuare o di cui usufruire a cura dell'istituzione, teatro a parte. La scuola era essenzialmente lezione, con qualche occasione di incontro politico in più (manifestazioni), e anche con qualche luminosa eccezione alla routine (ricordo una serie di concerti blues organizzati in orario serale...).
Il Liceo era comunque da tempo strutturato per l'istruzione di massa, senza quel carattere elitario che era appartenuto a stagioni precedenti, e viveva quindi tutti i problemi storici della scuola italiana. Si assisteva inoltre all'attenuarsi, e poi all'esaurirsi, di una stagione di politicizzazione intensa – di lì a poco sarebbero arrivati gli anni Ottanta e il cosiddetto “riflusso nel privato” – anche se abbiamo noi pure avvertito gli echi degli “anni di piombo”, culminati con il rapimento e l'omicidio di Aldo Moro.
Per me sono comunque stati anni di partecipazione intensa alle dinamiche della vita interna alla scuola, con l'esperienza dell'elezione (allora ancora politicizzata) al consiglio di istituto, e soprattutto con quella del gruppo giovanile che si riuniva a S. Filippo (dove attualmente sorge il parcheggio del Valduce). Un'esperienza di discussione, di formazione e di condivisione di ideali che ha molto arricchito quegli anni, integrando la dimensione educativa della scuola, insegnandomi a ricercare e a trovare gli spazi necessari per la riflessione personale. Opportunità come questa, oggi, mi sembrano assai rare se non del tutto assenti. Sul versante “studio”, le richieste di allora erano forse inferiori (in termini quantitativi, avendo meno discipline e ritmi non forsennati), tant'è vero che l'attività da me maggiormente praticata nel molto tempo libero di quegli anni è stata una lettura appassionata cui devo il mio caos mentale passato e presente, assieme a un poco di musica e di volontariato. Praticamente assenti la discoteca e il peregrinare da un locale all'altro: epoca felice, in cui questi rituali consumistici erano appena agli inizi e venivano praticati da personaggi che guardavamo con commiserazione. Minori disponibilità economiche e minore condiscendenza dei genitori ci aiutavano forse a ricercare anzitutto nella comunicazione e nel confronto, più che nella ricerca dei luoghi di svago, il senso del nostro stare assieme. Ci prendevamo sul serio, ma senza esagerare....
Premetto che non sono mai stato un fanatico del Giovio come istituzione: non ho mai sentito l'esigenza di periodici “pellegrinaggi alle radici” (pur essendo nato in questi edifici all'epoca in cui la struttura ospitava il reparto maternità dell'ospedale cittadino), ma in qualche modo la mia esistenza si è legata a più riprese al Liceo. La casa dove ora risiedo fu in passato abitata da un suo preside, al Giovio ho conosciuto la ragazza che mi avrebbe accompagnato, o subìto, per il resto della mia esistenza (ovviamente, la cosa migliore che mi sia capitata tra queste mura), al Giovio sono tornato come insegnante, anche se per scelta del provveditorato, non su mia insistenza. Coincidenze, che però sono significative anche in una città piccola come la nostra.
Il Giovio da me vissuto come studente è quello di circa trent'anni fa: una struttura molto simile (senza la palestra grande e gli ampliamenti recenti), ma con un numero di studenti inferiore alla metà dell'attuale. Anche allora però non ci si conosceva tutti; le occasioni di confronto erano rappresentate soprattutto da assemblee studentesche molto diverse dalle odierne giornate autogestite, con discussioni a volte ingenue su argomenti spesso più grandi di noi, cosa della quale ovviamente eravamo poco consapevoli. Neppure avevamo “progetti” da attuare o di cui usufruire a cura dell'istituzione, teatro a parte. La scuola era essenzialmente lezione, con qualche occasione di incontro politico in più (manifestazioni), e anche con qualche luminosa eccezione alla routine (ricordo una serie di concerti blues organizzati in orario serale...).
Il Liceo era comunque da tempo strutturato per l'istruzione di massa, senza quel carattere elitario che era appartenuto a stagioni precedenti, e viveva quindi tutti i problemi storici della scuola italiana. Si assisteva inoltre all'attenuarsi, e poi all'esaurirsi, di una stagione di politicizzazione intensa – di lì a poco sarebbero arrivati gli anni Ottanta e il cosiddetto “riflusso nel privato” – anche se abbiamo noi pure avvertito gli echi degli “anni di piombo”, culminati con il rapimento e l'omicidio di Aldo Moro.
Per me sono comunque stati anni di partecipazione intensa alle dinamiche della vita interna alla scuola, con l'esperienza dell'elezione (allora ancora politicizzata) al consiglio di istituto, e soprattutto con quella del gruppo giovanile che si riuniva a S. Filippo (dove attualmente sorge il parcheggio del Valduce). Un'esperienza di discussione, di formazione e di condivisione di ideali che ha molto arricchito quegli anni, integrando la dimensione educativa della scuola, insegnandomi a ricercare e a trovare gli spazi necessari per la riflessione personale. Opportunità come questa, oggi, mi sembrano assai rare se non del tutto assenti. Sul versante “studio”, le richieste di allora erano forse inferiori (in termini quantitativi, avendo meno discipline e ritmi non forsennati), tant'è vero che l'attività da me maggiormente praticata nel molto tempo libero di quegli anni è stata una lettura appassionata cui devo il mio caos mentale passato e presente, assieme a un poco di musica e di volontariato. Praticamente assenti la discoteca e il peregrinare da un locale all'altro: epoca felice, in cui questi rituali consumistici erano appena agli inizi e venivano praticati da personaggi che guardavamo con commiserazione. Minori disponibilità economiche e minore condiscendenza dei genitori ci aiutavano forse a ricercare anzitutto nella comunicazione e nel confronto, più che nella ricerca dei luoghi di svago, il senso del nostro stare assieme. Ci prendevamo sul serio, ma senza esagerare....
martedì 23 settembre 2008
Visita fiscale!

Mio malgrado, sono entrato a far parte del sospettabile mondo degli assenti dal lavoro, per la rottura improvvisa dei freni della bicicletta, lungo una ripida discesa, che mi ha costretto ad un volo scomposto e allo schianto contro una cancellata. Poteva andare peggio: niente di rotto, solo ammaccature e qualche ferita che reca un minimo pregiudizio al mio bel visino. Ringrazio l’efficienza del pronto soccorso del S. Anna che mi ha ricucito in modo sapiente. Fine del bollettino medico, ed inizio di quello burocratico.
Da animale domestico quale sono, non mi è pesato dover restare segregato in casa per una settimana, come prevedono gli inflessibili orari del ministro Brunetta, per restare a disposizione dei controlli. Avendo una famiglia, ho chi provvede alle necessità fondamentali di approvvigionamento, e sono comunque pronto ad affrontare ogni rinuncia. Ma so che non tutti hanno questa fortuna: trasgrediranno a loro rischio, evidentemente.
Non desta sconcerto, anzi è logico e doveroso, sottoporsi alla visita di controllo. Inconcepibile, invece, è che il medico ad essa preposto, quando si presenta, chieda di poter vedere il certificato del medico curante. Non senza fondamento, dal suo punto di vista, ammesso che il suo compito sia quello di "confermare" le diagnosi altrui e non di prendersi la responsabilità di formularne di proprie: peccato però che la legge imponga di trasmetterlo al datore di lavoro e all’INPS entro il quinto giorno di assenza (due, secondo altre versioni). Quindi nel mio caso, da bravo scolaretto, era già stato puntualmente inoltrato. Avendo io la documentazione del pronto soccorso, non ci sono poi stati problemi. Ma la procedura lascia molto a desiderare.
Qualcuno ha forse avvertito il lavoratore di fare una fotocopia? Forse il ministro presume che il primo pensiero di un infortunato sia di acquistare per corrispondenza una macchina fotocopiatrice, dato che certamente non potrebbe assentarsi per andare in cartoleria nell’orario di apertura? E non basterebbe, in questa Italia soffocata dalla burocrazia, modificare il predetto certificato con una ulteriore parte a ricalco, che il lavoratore possa trattenere? Insomma, fatte le nuove regole, ci si accorge come al solito che qualcosa viene dimenticato. Il lupo perde il pelo, ma non il vizio.
Il calo delle assenze nella pubblica amministrazione non è certo un male (al di là dei discutibili criteri di lettura dei dati), ma le trascuratezze delle nuove procedure non sembrano in verità sinonimo di una ritrovata efficienza.
giovedì 4 settembre 2008
Viva i furbi
.

Il mondo, dicono in molti, appartiene ai furbi. O forse solo l’Italia, ma per noi fa lo stesso. Perché mai dovrebbe fare eccezione una rampante donna in carriera, passata con rapidità vertiginosa da un’avvocatura mai esercitata (perché sostituita dalla passione politica) alla poltrona ministeriale?
La ministra Gelmini, attuale titolare dell’Istruzione, a suo tempo si era infatti premurata di ottenere la prescritta abilitazione da avvocato tramite l’esame di Stato. Da prima della classe, non averebbe certo dovuto temere l’impegno della prova. Eppure... come resistere nel 2001 alla tentazione di emigrare temporaneamente da Brescia a Reggio Calabria per approfittare di una risaputa condiscendenza? Perché lasciare i ragazzi meriodionali soli ad approfittare di tanta bonarietà? E come avrebbe potuto prevedere, allora, la spregiudicata beniamina di Berlusconi che a distanza di non troppi anni avrebbe assunto i panni della moralizzatrice nei confronti dell’istruzione al Sud, giudicata non senza fondamento scadente nei risultati (ma incolpando prevalentemente, salvo rimangiarsi le parole, l’operato dei soli docenti) ed evidentemente lassista?
Aveva bisogno di lavorare, dice ora Gelmini a mo’ di giustificazione, perché la famiglia “non poteva permettersi di mantenerla troppo a lungo agli studi”. Motivazione quantomeno disinvolta, visto che gli studi erano da tempo terminati e semmai si stava svolgendo il praticantato. E non del tutto coerente, se si pensa che il tipico “post-studente bisognoso” non sottrae tempo al lavoro, o alla sua ricerca, per darsi all’attività politica a tempo pieno, come la nostra ha fatto da subito, comprendendo che le sarebbe di gran lunga convenuto. Insomma, scuse poco logiche, che però il grande pubblico non analizza come tali, preferendo, ne siamo certi, simpatizzare con la (presunta e sedicente) “ragazza povera”.
Visto questo sfortunato precedente, in futuro ci sarebbe da augurarsi che la suddetta ci diletti cimentandosi anche in invettive contro le raccomandazioni, oppure in denunce del servilismo, o ancora in filippiche contro le tendenze truffaldine. Tutti mali che affliggono la società e la politica italiane (e magari anche una piccola parte della burocrazia scolastica) e che meritano di essere denunciati da un’alta cattedra. Sempre che poi qualche indagatore scrupoloso, come in questo caso, non sveli gli altarini: e forse proprio in questo starebbe l’amaro divertimento.
Comunque non vi sono da temere ripercussioni di sorta per un tal genere di infortuni: anzi, in un paese il cui Parlamento rigurgita di inquisiti e condannati, questa “innocente furberia” rappresenta certamente un titolo di merito che vivacizza il curriculum ed iscrive a pieno titolo al vertice della casta: quello, appunto, occupato dai furbi. Né vi è da temere qualche futura penalizzazione elettorale dei medesimi, come sanno bene gli elettori comaschi (a titolo d’esempio) che hanno visto sempre in sella, e riconfermato come assessore, addirittura un condannato per esercizio abusivo della professione medica...

Il mondo, dicono in molti, appartiene ai furbi. O forse solo l’Italia, ma per noi fa lo stesso. Perché mai dovrebbe fare eccezione una rampante donna in carriera, passata con rapidità vertiginosa da un’avvocatura mai esercitata (perché sostituita dalla passione politica) alla poltrona ministeriale?
La ministra Gelmini, attuale titolare dell’Istruzione, a suo tempo si era infatti premurata di ottenere la prescritta abilitazione da avvocato tramite l’esame di Stato. Da prima della classe, non averebbe certo dovuto temere l’impegno della prova. Eppure... come resistere nel 2001 alla tentazione di emigrare temporaneamente da Brescia a Reggio Calabria per approfittare di una risaputa condiscendenza? Perché lasciare i ragazzi meriodionali soli ad approfittare di tanta bonarietà? E come avrebbe potuto prevedere, allora, la spregiudicata beniamina di Berlusconi che a distanza di non troppi anni avrebbe assunto i panni della moralizzatrice nei confronti dell’istruzione al Sud, giudicata non senza fondamento scadente nei risultati (ma incolpando prevalentemente, salvo rimangiarsi le parole, l’operato dei soli docenti) ed evidentemente lassista?
Aveva bisogno di lavorare, dice ora Gelmini a mo’ di giustificazione, perché la famiglia “non poteva permettersi di mantenerla troppo a lungo agli studi”. Motivazione quantomeno disinvolta, visto che gli studi erano da tempo terminati e semmai si stava svolgendo il praticantato. E non del tutto coerente, se si pensa che il tipico “post-studente bisognoso” non sottrae tempo al lavoro, o alla sua ricerca, per darsi all’attività politica a tempo pieno, come la nostra ha fatto da subito, comprendendo che le sarebbe di gran lunga convenuto. Insomma, scuse poco logiche, che però il grande pubblico non analizza come tali, preferendo, ne siamo certi, simpatizzare con la (presunta e sedicente) “ragazza povera”.
Visto questo sfortunato precedente, in futuro ci sarebbe da augurarsi che la suddetta ci diletti cimentandosi anche in invettive contro le raccomandazioni, oppure in denunce del servilismo, o ancora in filippiche contro le tendenze truffaldine. Tutti mali che affliggono la società e la politica italiane (e magari anche una piccola parte della burocrazia scolastica) e che meritano di essere denunciati da un’alta cattedra. Sempre che poi qualche indagatore scrupoloso, come in questo caso, non sveli gli altarini: e forse proprio in questo starebbe l’amaro divertimento.
Comunque non vi sono da temere ripercussioni di sorta per un tal genere di infortuni: anzi, in un paese il cui Parlamento rigurgita di inquisiti e condannati, questa “innocente furberia” rappresenta certamente un titolo di merito che vivacizza il curriculum ed iscrive a pieno titolo al vertice della casta: quello, appunto, occupato dai furbi. Né vi è da temere qualche futura penalizzazione elettorale dei medesimi, come sanno bene gli elettori comaschi (a titolo d’esempio) che hanno visto sempre in sella, e riconfermato come assessore, addirittura un condannato per esercizio abusivo della professione medica...
giovedì 28 agosto 2008
Alitalia: l'ennesimo miracolo italiano
Quale imprenditore, trovandosi alle soglie del fallimento, non sognerebbe un colpo di bacchetta magica che facesse pagare ad altri i debiti da lui accumulati, eliminasse il personale in esubero e gli riconsegnasse un'azienda resa più snella e competitiva da alleanze con colossi internazionali?
Per qualcuno, evidentemente, il mondo dei sogni esiste. È il nostro paese, e l'azienda-bidone che verrebbe trasformata in un'avvenente leader del mercato nazionale è Alitalia. Leggendo sui giornali i primi dettagli del piano industriale, ci troviamo di fronte ad un incanto fatato, che segue le promesse elettorali dell'attuale governo. Ma si comincia a capire anche a chi toccherà pagarne i costi.
La parte “cattiva” dell'azienda (coi debiti) viene separata da quella buona, che sarà assegnata ad imprenditori coraggiosi. Grande coraggio, il loro, visto che non pagheranno le azioni allo Stato neppure un centesimo, a differenza dell'offerta di Air France, e che tra qualche tempo saranno liberi di cedere le loro quote al partner straniero, senza l'intervento del quale non si può oggi concludere l'operazione. Tra un po' potremo sapere di chi si tratta. Ma non ci avevano raccontato che bisognava salvare ad ogni costo l'”italianità” della compagnia di bandiera contro le conquiste straniere?
Si salveranno almeno i posti di lavoro, che avevano tanto inquietato i sindacati nelle precedenti ipotesi? Ovviamente no, non si può: i licenziamenti inevitabili sono da due a tre volte più di quelli precedenti, ma ci dicono che occorre rassegnarsi, e che magari il governo potrà riassumere i malcapitati nella pubblica amministrazione, notoriamente a corto di organico.
E come verranno eliminati i debiti? Una volta che azioni e obbligazioni siano divenute carta straccia, spetterà al Tesoro, cioè allo stato, ripianare oltre un miliardo di euro. Oltre ai trecento milioni già erogati come “prestito” ma che a questo punto non rientreranno mai, in barba alle norme europee sugli aiuti di stato.
Questi però sono tutti soldi dei contribuenti. Soldi nostri, gettati al vento senza ottenere in cambio alcun servizio. È vero che in passato ho volato un paio di volte con Alitalia, e forse è una colpa, ma mi sembra eccessivo farmela scontare col costringermi a pagare questo ulteriore balzello.
Magari sarebbe da accogliere il suggerimento di ordine generale che, dalle pagine di “Libero”, lancia il ministro Brunetta: “Se lo stato spreca, fategli causa”. Temo proprio che con Alitalia si stia preparando l'occasione più clamorosa di sperpero che la storia italiana di questi anni potrà ricordare. Non vedo chi potrebbe esserne felice.
Per qualcuno, evidentemente, il mondo dei sogni esiste. È il nostro paese, e l'azienda-bidone che verrebbe trasformata in un'avvenente leader del mercato nazionale è Alitalia. Leggendo sui giornali i primi dettagli del piano industriale, ci troviamo di fronte ad un incanto fatato, che segue le promesse elettorali dell'attuale governo. Ma si comincia a capire anche a chi toccherà pagarne i costi.
La parte “cattiva” dell'azienda (coi debiti) viene separata da quella buona, che sarà assegnata ad imprenditori coraggiosi. Grande coraggio, il loro, visto che non pagheranno le azioni allo Stato neppure un centesimo, a differenza dell'offerta di Air France, e che tra qualche tempo saranno liberi di cedere le loro quote al partner straniero, senza l'intervento del quale non si può oggi concludere l'operazione. Tra un po' potremo sapere di chi si tratta. Ma non ci avevano raccontato che bisognava salvare ad ogni costo l'”italianità” della compagnia di bandiera contro le conquiste straniere?
Si salveranno almeno i posti di lavoro, che avevano tanto inquietato i sindacati nelle precedenti ipotesi? Ovviamente no, non si può: i licenziamenti inevitabili sono da due a tre volte più di quelli precedenti, ma ci dicono che occorre rassegnarsi, e che magari il governo potrà riassumere i malcapitati nella pubblica amministrazione, notoriamente a corto di organico.
E come verranno eliminati i debiti? Una volta che azioni e obbligazioni siano divenute carta straccia, spetterà al Tesoro, cioè allo stato, ripianare oltre un miliardo di euro. Oltre ai trecento milioni già erogati come “prestito” ma che a questo punto non rientreranno mai, in barba alle norme europee sugli aiuti di stato.
Questi però sono tutti soldi dei contribuenti. Soldi nostri, gettati al vento senza ottenere in cambio alcun servizio. È vero che in passato ho volato un paio di volte con Alitalia, e forse è una colpa, ma mi sembra eccessivo farmela scontare col costringermi a pagare questo ulteriore balzello.
Magari sarebbe da accogliere il suggerimento di ordine generale che, dalle pagine di “Libero”, lancia il ministro Brunetta: “Se lo stato spreca, fategli causa”. Temo proprio che con Alitalia si stia preparando l'occasione più clamorosa di sperpero che la storia italiana di questi anni potrà ricordare. Non vedo chi potrebbe esserne felice.
giovedì 14 agosto 2008
Patenti di cristianità
Chi certifica l'ortodossia in ambito cristiano? Alcuni risponderebbero che, almeno per il mondo cattolico, tale funzione la esercita il magistero ecclesiastico. Ingenui e sprovveduti: non sanno infatti che i titolari di questo delicato compito sono alcuni qualificati esponenti del centrodestra, quali Gasparri, Giovanardi, Bondi e qualche altro fine teologo del loro livello.
Lo apprende a sue spese la rivista “Famiglia Cristiana”, colpevole di aver espresso posizioni critiche nei confronti dell'operato del governo e perciò, automaticamente, “cattocomunista”. In pratica, una pubblicazione eretica, che si vorrebbe veder bandita dalla “buona stampa” parrocchiale. Criticare in parte il “miracolo” dei primi cento giorni berlusconiani, pur rimarcando il successo del presidente autodefinitosi “spazzino” a Napoli, e però sottolineare la più che probabile impronta propagandistica dei provvedimenti sulla sicurezza, è colpa imperdonabile. I nuovi sanfedisti del PdL si sono trattenuti, nella loro infinita saggezza, dal definirlo peccato mortale, ma hanno inflitto una scomunica de facto al giornalismo non asservito dei sacerdoti di FC (non devono forse praticare le sacrosante virtù dell'obbedienza e del silenzio?) e, trasversalmente, a tutti quegli uomini di chiesa che scelgono di stare dalla parte degli ultimi anziché blandire il potere politico, aspettandosene chissà quali vantaggi.
Bondi li ammonisce: sono intellettuali, lontani dal popolo delle parrocchie che invece brama durezza contro i Rom e soldati nelle strade. Sondaggi alla mano, magari ha pure ragione. Però è strano sentir attribuire alla Chiesa il compito di assecondare le tendenze egoistiche del suo gregge, e non di proporre un'apertura e una solidarietà pur fuori moda, ma forse un poco più vicina allo spirito e alla lettera del Vangelo.
Il direttore di una rivista cattolica non rappresenta certamente la gerarchia né il Vaticano. Ma se egli chiede al governo per cui ha votato di mantenere le promesse sui temi della solidarietà sociale e soprattutto del sostegno alla famiglia (non quella astratta dei proclami, ma quella in carne ed ossa della vita quotidiana) viola forse qualche dogma? Se si permette di criticare una filosofia politica neppur troppo nascosta che erige l'individualismo a valore, che alimenta paure irrazionali e strizza l'occhio alla xenofobia, per non dire delle misure legislative ad personam, dell'ostentazione cafona della ricchezza e del successo, dello svilimento della figura femminile, diviene automaticamente “criptomarxista”? O non tiene piuttosto ad esercitare, secondo la sua vocazione, la libertà del credente che spera in un'umanità rinnovata secondo un ideale di amore universale, e che non si accontenta delle contrapposizioni sterili, dei rifiuti, e chiede alla politica autentici segnali di promozione umana?
I modi e i toni delle critiche, certo, possono sempre essere discussi, e a loro volta criticati. Ma è consentito auspicare che, almeno ogni tanto, chi ha responsabilità di governo replichi con la concretezza dei fatti anziché con patetiche accuse di comunismo, anatemi stizziti e la pretesa di essere giudice della fede altrui?
Lo apprende a sue spese la rivista “Famiglia Cristiana”, colpevole di aver espresso posizioni critiche nei confronti dell'operato del governo e perciò, automaticamente, “cattocomunista”. In pratica, una pubblicazione eretica, che si vorrebbe veder bandita dalla “buona stampa” parrocchiale. Criticare in parte il “miracolo” dei primi cento giorni berlusconiani, pur rimarcando il successo del presidente autodefinitosi “spazzino” a Napoli, e però sottolineare la più che probabile impronta propagandistica dei provvedimenti sulla sicurezza, è colpa imperdonabile. I nuovi sanfedisti del PdL si sono trattenuti, nella loro infinita saggezza, dal definirlo peccato mortale, ma hanno inflitto una scomunica de facto al giornalismo non asservito dei sacerdoti di FC (non devono forse praticare le sacrosante virtù dell'obbedienza e del silenzio?) e, trasversalmente, a tutti quegli uomini di chiesa che scelgono di stare dalla parte degli ultimi anziché blandire il potere politico, aspettandosene chissà quali vantaggi.
Bondi li ammonisce: sono intellettuali, lontani dal popolo delle parrocchie che invece brama durezza contro i Rom e soldati nelle strade. Sondaggi alla mano, magari ha pure ragione. Però è strano sentir attribuire alla Chiesa il compito di assecondare le tendenze egoistiche del suo gregge, e non di proporre un'apertura e una solidarietà pur fuori moda, ma forse un poco più vicina allo spirito e alla lettera del Vangelo.
Il direttore di una rivista cattolica non rappresenta certamente la gerarchia né il Vaticano. Ma se egli chiede al governo per cui ha votato di mantenere le promesse sui temi della solidarietà sociale e soprattutto del sostegno alla famiglia (non quella astratta dei proclami, ma quella in carne ed ossa della vita quotidiana) viola forse qualche dogma? Se si permette di criticare una filosofia politica neppur troppo nascosta che erige l'individualismo a valore, che alimenta paure irrazionali e strizza l'occhio alla xenofobia, per non dire delle misure legislative ad personam, dell'ostentazione cafona della ricchezza e del successo, dello svilimento della figura femminile, diviene automaticamente “criptomarxista”? O non tiene piuttosto ad esercitare, secondo la sua vocazione, la libertà del credente che spera in un'umanità rinnovata secondo un ideale di amore universale, e che non si accontenta delle contrapposizioni sterili, dei rifiuti, e chiede alla politica autentici segnali di promozione umana?
I modi e i toni delle critiche, certo, possono sempre essere discussi, e a loro volta criticati. Ma è consentito auspicare che, almeno ogni tanto, chi ha responsabilità di governo replichi con la concretezza dei fatti anziché con patetiche accuse di comunismo, anatemi stizziti e la pretesa di essere giudice della fede altrui?
venerdì 8 agosto 2008
Micioni castrati: citazioni tra passato e presente
“Se la Repubblica italiana è diventata la repubblica della partitocrazia una grande responsabilità l'abbiamo anche noi giornalisti. Anziché ringhiare come cani da guardia, abbiamo fatto le fusa come i micioni castrati accanto al caminetto di chi comanda”. Così scriveva Giampaolo Pansa sul “Corriere della Sera” il 13 maggio del 1993.
Quindici anni dopo può fornire qualche spunto di riflessione una serie di citazioni provenienti da quel mondo remoto, ove ci si poteva illudere che la politica avrebbe subito una trasformazione radicale, e ancor più che il giornalismo italiano avrebbe cambiato volto. Quale migliore occasione di Tangentopoli e della critica radicale al sistema politico di allora per abbandonare l'atteggiamento descritto da Pansa, uscendo dalle pastoie dell'“advocacy journalism” (quello che conosce la verità ancor prima di conoscere i fatti) per tendere, almeno in parte, verso una maggiore imparzialità. Magari per porsi, nei confronti del potere – di ogni potere – come il “cane da guardia” della tradizione giornalistica anglosassone, teso in primis all'interesse del lettore e alla difesa della democrazia. Un puro sogno? Ciascuno può valutarlo considerando il presente ed il recente passato, a partire dal confronto con questa fotografia della situazione di quei primi anni Novanta (quando, se non altro, l'uso della lingua italiana era soggetto ancora a qualche forma di controllo sintattico-grammaticale e di aspirazione alla qualità che oggi sembrano essersi completamente dissolti, soprattutto nei TG, ma anche sulla carta stampata).
«La colpa, l'eterna tentazione, e alla fine la vera corruzione, è l'intimità con il potere, perché significa rinunciare al proprio compito e al proprio dovere... Troppo spesso tutto ciò è stato dimenticato nella convinzione diffusa di far parte di una superclasse che annullava i confini tra i potenti e i giornalisti in un parassitismo reciproco pronto a calpestare gli interessi dei lettori» (Ezio Mauro, La Stampa, 14.3.1994).
«È mancato finora nella mappa cromosomica dei giornalisti italiani quello spirito antagonista che ne dovrebbe fare i controllori dei potenti» (Vittorio Roidi, L'Europeo, 21.5. 1993).
«Troppo spesso ci siamo accontentati di una informazione di Palazzo, appagati dal “tu” accattivante che ci veniva elargito dai potenti» (Claudio Alò, Corriere della Sera, 21.7.1993)
«I giornali non chiedono più le inchieste, hanno capito che le inchieste sono pericolose, che in un modo o nell'altro si lede sempre qualche interesse economico... I grandi giornali appartengono a un pugno di grandi aziende che si aiutano tra loro» (Giorgio Bocca, L'Europeo, 21.5.1993)
«In Italia per oltre quarant'anni non c'è mai stata un'informazione televisiva degna di questo nome. E, purtroppo, non è una esagerazione affermare che i telegiornali italiani sono i peggiori del mondo occidentale industrializzato... non arriviamo a capire come possa essere permesso a delle persone incompetenti di fare questo mestiere... In parole povere, non c'è quasi nessuno che sopravviverebbe un solo giorno in uno dei network americani o in qualunque altra televisione seria» (Wolfgang Achtner, corrispondente della CNN, Micromega, 1/1994).
«Ci si rifugia nell'aneddoto, si cancella la memoria storica; si osservano le vicende con sguardo acritico... Si pubblica qualsiasi cosa, purché sia nuova: senza storicizzarla e senza vagliarla; senza fornire ai lettori gli strumenti per capire. Anche questa, forse, è una mancanza di deontologia» (Marcelle Padovani, corrispondente del Nouvel Observateur, Il Messaggero, 14.3.1994).
«Un cameratismo, e anche peggio, tra politici e giornalisti, tra imprenditori e giornalisti, ha spesso preso il posto di quel distacco e antagonismo che producono un'informazione spassionata» (Roger Cohen, Gannet Center Journal, primavera 1990).
«Mentre nella teoria liberal-borghese l'informazione giornalistica è pensata come soggetto “altro” dal sistema politico/economico e, per molti versi, anche dai privati cittadini che essa pretende di rappresentare, la stessa cosa non avviene nel modello che si è venuto realizzando in Italia, dove esiste una forte compenetrazione tra élite dei media ed élite politiche, o più generalmente élite del potere, tale che spesso finiscono con lo sposare il punto di vista delle aree culturali e politiche alle quali esse sono, in misura diversa, collegate» (Paolo Mancini, novembre 1991)
Quindici anni dopo può fornire qualche spunto di riflessione una serie di citazioni provenienti da quel mondo remoto, ove ci si poteva illudere che la politica avrebbe subito una trasformazione radicale, e ancor più che il giornalismo italiano avrebbe cambiato volto. Quale migliore occasione di Tangentopoli e della critica radicale al sistema politico di allora per abbandonare l'atteggiamento descritto da Pansa, uscendo dalle pastoie dell'“advocacy journalism” (quello che conosce la verità ancor prima di conoscere i fatti) per tendere, almeno in parte, verso una maggiore imparzialità. Magari per porsi, nei confronti del potere – di ogni potere – come il “cane da guardia” della tradizione giornalistica anglosassone, teso in primis all'interesse del lettore e alla difesa della democrazia. Un puro sogno? Ciascuno può valutarlo considerando il presente ed il recente passato, a partire dal confronto con questa fotografia della situazione di quei primi anni Novanta (quando, se non altro, l'uso della lingua italiana era soggetto ancora a qualche forma di controllo sintattico-grammaticale e di aspirazione alla qualità che oggi sembrano essersi completamente dissolti, soprattutto nei TG, ma anche sulla carta stampata).
«La colpa, l'eterna tentazione, e alla fine la vera corruzione, è l'intimità con il potere, perché significa rinunciare al proprio compito e al proprio dovere... Troppo spesso tutto ciò è stato dimenticato nella convinzione diffusa di far parte di una superclasse che annullava i confini tra i potenti e i giornalisti in un parassitismo reciproco pronto a calpestare gli interessi dei lettori» (Ezio Mauro, La Stampa, 14.3.1994).
«È mancato finora nella mappa cromosomica dei giornalisti italiani quello spirito antagonista che ne dovrebbe fare i controllori dei potenti» (Vittorio Roidi, L'Europeo, 21.5. 1993).
«Troppo spesso ci siamo accontentati di una informazione di Palazzo, appagati dal “tu” accattivante che ci veniva elargito dai potenti» (Claudio Alò, Corriere della Sera, 21.7.1993)
«I giornali non chiedono più le inchieste, hanno capito che le inchieste sono pericolose, che in un modo o nell'altro si lede sempre qualche interesse economico... I grandi giornali appartengono a un pugno di grandi aziende che si aiutano tra loro» (Giorgio Bocca, L'Europeo, 21.5.1993)
«In Italia per oltre quarant'anni non c'è mai stata un'informazione televisiva degna di questo nome. E, purtroppo, non è una esagerazione affermare che i telegiornali italiani sono i peggiori del mondo occidentale industrializzato... non arriviamo a capire come possa essere permesso a delle persone incompetenti di fare questo mestiere... In parole povere, non c'è quasi nessuno che sopravviverebbe un solo giorno in uno dei network americani o in qualunque altra televisione seria» (Wolfgang Achtner, corrispondente della CNN, Micromega, 1/1994).
«Ci si rifugia nell'aneddoto, si cancella la memoria storica; si osservano le vicende con sguardo acritico... Si pubblica qualsiasi cosa, purché sia nuova: senza storicizzarla e senza vagliarla; senza fornire ai lettori gli strumenti per capire. Anche questa, forse, è una mancanza di deontologia» (Marcelle Padovani, corrispondente del Nouvel Observateur, Il Messaggero, 14.3.1994).
«Un cameratismo, e anche peggio, tra politici e giornalisti, tra imprenditori e giornalisti, ha spesso preso il posto di quel distacco e antagonismo che producono un'informazione spassionata» (Roger Cohen, Gannet Center Journal, primavera 1990).
«Mentre nella teoria liberal-borghese l'informazione giornalistica è pensata come soggetto “altro” dal sistema politico/economico e, per molti versi, anche dai privati cittadini che essa pretende di rappresentare, la stessa cosa non avviene nel modello che si è venuto realizzando in Italia, dove esiste una forte compenetrazione tra élite dei media ed élite politiche, o più generalmente élite del potere, tale che spesso finiscono con lo sposare il punto di vista delle aree culturali e politiche alle quali esse sono, in misura diversa, collegate» (Paolo Mancini, novembre 1991)
venerdì 1 agosto 2008
Ironia
Saper riconoscere la propria ignoranza, in un mondo in cui tutti pontificano (compresi, da qualche anno in qua, calciatori ed attricette) è impresa difficile: eppure, come insegna Socrate, è veramente sapiente solo chi sa di non sapere, non chi s'illude di essere già “a posto”, volendo ignorare così la sua stessa ignoranza; oppure chi, come nel caso del politico, la dissimula dietro certezze o furbizie che si possano “vendere” bene per ottenere consenso.
Solo chi sa riconoscere il proprio limite avverte il bisogno di conoscere, mentre chi si crede in possesso del sapere non coglie la necessità e il valore della ricerca, così da non prendersi cura di sé e da rimanere irrimediabilmente lontano dalla verità e della virtù.
Socrate, com'è noto, ritiene che l'ironia rappresenti il mezzo per risvegliare negli altri la consapevolezza della propria ignoranza, stimolando il dubbio e l'inquietudine per impegnarli nella ricerca. Essa è il fondamentale antidoto alla boria e all'arroganza del saccente, del sedicente esperto, del potente di turno.
Come mostrano gli atteggiamenti seriosi e un po' tetri di chi esercita il potere (magari dissimulati sotto mentite spoglie, come quelle di gran barzellettiere), nella sfera pubblica non è molto praticata la capacità di mettersi in discussione.
Quanto giova, infatti, nella sfera politica il mostrarsi aperti, possibilisti, umili? O per convincere ed irretire gli elettori, i sodali (e, con minore difficoltà, i servi) non occorre piuttosto presentarsi come personaggi dalle granitiche certezze, convinti di aver sempre ragione, e ovviamente privi di senso del ridicolo?
L'ironia socratica, smontando questa ipocrisia più o meno consapevole, tende anzitutto a mettere l'uomo in chiaro con se stesso, per portarlo al riconoscimento dei propri limiti e renderlo giusto: politicamente parlando, solidale con gli altri cittadini, fedele all'ideale di giustizia.
Il dubbio e l'inquietudine non accompagnano perciò una condizione di debolezza, ma di franca ammissione che non si possiede la verità una volta per tutte. Essi sono dunque la condizione per poter avviare una ricerca scevra da pregiudizi, uno stimolo prezioso per guardare alle cose in maniera profonda, nonché per avviare un vero dialogo con gli altri. Presuppongono in chi li usa una reale intelligenza, nel senso etimologico, come capacità di “leggere dentro” le cose.
Può diventare un modo di procedere diffuso? Solo in proporzione all'interesse per ciò che Socrate definiva la “cura della propria anima”. Quindi, probabilmente no.
Se la superficialità rassicurante dei luoghi comuni viene meno, manca infatti la materia prima per molti politici, che indirizzano l'opinione generale, la doxa, proprio grazie a questi preziosi alleati (tutti gli zingari rubano, gli statali sono fannulloni, il fantomatico popolo lumbard discende dai celti, destra è sinonimo di ordine, efficienza e responsabilità...). Col supporto dei media compiacenti o poco abituati a verifiche e riscontri fattuali, la politica degli annunci si rivela così la più pagante. L'importante è avere faccia tosta a sufficienza, mostrarsi sicuri di sé, coprirsi da soli di pubbliche lodi e denigrare sistematicamente quanto fatto dagli altri. E, soprattutto, non tollerare in proposito scetticismi.
Solo chi sa riconoscere il proprio limite avverte il bisogno di conoscere, mentre chi si crede in possesso del sapere non coglie la necessità e il valore della ricerca, così da non prendersi cura di sé e da rimanere irrimediabilmente lontano dalla verità e della virtù.
Socrate, com'è noto, ritiene che l'ironia rappresenti il mezzo per risvegliare negli altri la consapevolezza della propria ignoranza, stimolando il dubbio e l'inquietudine per impegnarli nella ricerca. Essa è il fondamentale antidoto alla boria e all'arroganza del saccente, del sedicente esperto, del potente di turno.
Come mostrano gli atteggiamenti seriosi e un po' tetri di chi esercita il potere (magari dissimulati sotto mentite spoglie, come quelle di gran barzellettiere), nella sfera pubblica non è molto praticata la capacità di mettersi in discussione.
Quanto giova, infatti, nella sfera politica il mostrarsi aperti, possibilisti, umili? O per convincere ed irretire gli elettori, i sodali (e, con minore difficoltà, i servi) non occorre piuttosto presentarsi come personaggi dalle granitiche certezze, convinti di aver sempre ragione, e ovviamente privi di senso del ridicolo?
L'ironia socratica, smontando questa ipocrisia più o meno consapevole, tende anzitutto a mettere l'uomo in chiaro con se stesso, per portarlo al riconoscimento dei propri limiti e renderlo giusto: politicamente parlando, solidale con gli altri cittadini, fedele all'ideale di giustizia.
Il dubbio e l'inquietudine non accompagnano perciò una condizione di debolezza, ma di franca ammissione che non si possiede la verità una volta per tutte. Essi sono dunque la condizione per poter avviare una ricerca scevra da pregiudizi, uno stimolo prezioso per guardare alle cose in maniera profonda, nonché per avviare un vero dialogo con gli altri. Presuppongono in chi li usa una reale intelligenza, nel senso etimologico, come capacità di “leggere dentro” le cose.
Può diventare un modo di procedere diffuso? Solo in proporzione all'interesse per ciò che Socrate definiva la “cura della propria anima”. Quindi, probabilmente no.
Se la superficialità rassicurante dei luoghi comuni viene meno, manca infatti la materia prima per molti politici, che indirizzano l'opinione generale, la doxa, proprio grazie a questi preziosi alleati (tutti gli zingari rubano, gli statali sono fannulloni, il fantomatico popolo lumbard discende dai celti, destra è sinonimo di ordine, efficienza e responsabilità...). Col supporto dei media compiacenti o poco abituati a verifiche e riscontri fattuali, la politica degli annunci si rivela così la più pagante. L'importante è avere faccia tosta a sufficienza, mostrarsi sicuri di sé, coprirsi da soli di pubbliche lodi e denigrare sistematicamente quanto fatto dagli altri. E, soprattutto, non tollerare in proposito scetticismi.
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